“Esistono cammini senza viaggiatori. Ma vi sono ancor più viaggiatori che non hanno i loro sentieri”, scriveva Gustav Flaubert tra quelle pagine ingiallite dalle polveriere della Francia post-rivoluzionaria. Homo viator, espressione più compiuta del peregrinare umano e di quella genealogia di antichi viandanti che, sin dalle origini, hanno guardato e ambito l’orizzonte in quelle esperienze che si manifestano secondo moti circolari, in quella perfezione geometrica che si riflette nell’animo umano attraverso le armoniche e disarmoniche combinazioni della mente. E allora viene quasi spontaneo svestire gli abiti del turista ed indossare quelli del viaggiatore, di quello spirito errante eternamente insoddisfatto, capace di viaggiare nella memoria come in un attimo sfuggente, in un universo chiuso eppure senza confini. Esperienza e viaggio, termini che la civiltà occidentale consegna come binomio semantico indivisibile che sembra rinnovarsi perfino in una comune origine etimologica. Viaggi che rivivono in strade e sentieri tortuosi che diventano santuari di pellegrini e viandanti, luoghi ancestrali che trascendono tempo e spazio capaci di restituire all’errare umano quell’intima accezione assopita nell’inconscio collettivo, quel sedimento primitivo che è il senso più stretto dell’esistenza umana. Ed è proprio da una strada, la Provinciale 477, che ha inizio l’ascesa all’Altipiano di Castelluccio, terra che Fosco Maraini non tardò a definire come il luogo più simile al Tibet che esiste in Europa. Una vasta depressione generata da una distensione tettonica verificatasi circa un milione di anni fa ha tracciato il profilo di una terra che sa mostrarsi tanto umana quanto selvaggia.

L’Altopiano di Castelluccio è un versante di faglia originato dalla distensione tettonica che, circa 1 milione di anni fa fece separare e allontanare immani blocchi rocciosi, dando così origine a una vasta depressione. In quest’ultima cominciarono a depositarsi sedimenti più o meno grossolani portando infine alla costituzione dell’attuale fondo piatto del Pian Grande, di Pian Piccolo e di Pian Perduto.

L’idea di una natura primitiva che rimanda verosimilmente all’inaccessibile foresta pluviale amazzonica sembra quasi rivivere in quei massicci rocciosi, in quelle vette che suggeriscono all’animo umano la direzione da intraprendere per elevare lo spirito a fuoco fatuo, ad entità intangibile capace di librarsi oltre le perentorie correnti ascensionali che incatenano il corpo al suolo. Una terra i cui luoghi sembrano custodire una doppia memoria. Una visibile a tutti, e una silenziosa, nascosta, segreta quasi occulta. E’ il caso del Lago di Pilato, situato a 1940 metri sopra il livello del mare nell’ex circolo polare del Monte Vettore, da sempre protagonista di una duplice esistenza. Una che sembra quasi identificarsi nel battito cardiaco di un crostaceo funambolo, il Chirocefalo del Marchesoni, che vive in equilibrio precario tra il rischio di estinzione e la speranza di sopravvivenza. Tenue sprazzo di luce in tempi di rovinosa perdita della biodiversità. E una misteriosa, quasi mistica, animata dalle ombre di sinistre figure ritratte dalla tradizione popolare nelle vesti di fate e sibille. Il fascino esercitato dal lago maledetto ha origine nei meandri della psiche umana dove albergano le paure e le superstizioni che sono il fondamento della magia e dell’occulto. Uno specchio d’acqua che, dal 1200, assiste ad un continuo via vai di maghi e negromanti. Forme inquiete di scenari dolomitici incorniciano paesaggi quasi lapidei dominati da un borgo che appare quasi sidereo nel gelo innevato del poggio su cui sorge, Castelluccio, avamposto lunare di una civiltà contadina di cui ancora oggi si respira la presenza. Luoghi dell’infinito e dell’ignoto, di inghiottitoi naturali che conducono al centro della terra e scalinate di marmo che portano al cielo.

Il Lago di Pilato è situato a 1941 m. slm., in una conca del Monte Vettore modellata dal ghiaccio, disposto in senso sud-nord, di forma e dimensione variabili a seconda della quantità d`acqua dovuta alle precipitazioni ed al disgelo. Quando vi è abbondanza d`acqua, il lago ha una forma ad occhiale, con una strozzatura creata dal detrito di falda.

Se all’infinito si addice il monocromo, l’Altipiano di Castelluccio si sottrae a questa crudele legge cromatica. Tonalità pastello che stupiscono per la leggerezza con cui si manifestano sembrano quasi sciogliersi sotto la pioggia primaverile che annuncia l’arrivo della Fioritura, trionfo di colori e risultato ultimo dell’isolamento e della selezione naturale a cui la flora locale è stata sottoposta attraverso le annuali attività agricole. Una natura che differisce da quella titanica tanto cara ai romantica e da quella sognante dell’Arcadia, una natura che è sorella dell’uomo, una natura francescana, nell’accezione più profonda del termine. Natura Naturans, perpetua azione generatrice di Dio che rende la il creato perfetto accompagnandone costantemente il divenire secondo le leggi della sua propria necessità razionale.

Fra gli inizi di giugno e la metà di luglio, l`Altopiano di Castelluccio è testimone di un evento di particolare importanza, La Fioritura. Per diverse settimane la monotonia cromatica del pascolo, viene spezzata da un mosaico di colori, con variazioni di toni che vanno dal giallo ocra al rosso. Le specie floreali che tingono il Pian Grande e il Pian Perduto in questo periodo, sono innumerevoli, camminando lungo i sentieri possiamo incontrare: genzianelle, narcisi, violette, papaveri, ranuncoli, asfodeli, viola Eugeniae, trifogli, acetoselle e tant`altro.


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