Un viaggio tra i pochi abitanti rimasti nel paese che non c'è più, aspettando l'avvio imminente della ricostruzione a quasi 8 anni dal sisma

I custodi di Castelluccio tra mandrie, lenticchie sogni e realtà

Il nostro cronista nel paese distrutto dal terremoto del 2016. La ricostruzione sta per iniziare: le speranze degli abitanti rimasti I sopravvissuti di Castelluccio Un viaggio tra i pochi abitanti rimasti nel paese che non c’è più, aspettando l’avvio imminente della ricostruzione a quasi 8 anni dal sisma I custodi di Castelluccio tra mandrie, lenticchie sogni e realtà

Un segnale illeggibile, cancellato da centinaia di adesivi (perché?), bruciato dal sole come una vecchia pellicola ripescata in fondo ad un baule, annuncia Castelluccio, il paese che non c’è più. Come il segnale. Rase al suolo il 30 ottobre 2016 quasi tutte le 140 case (ne restano in piedi una decina, ovviamente inagibili), in attesa della avveniristica ricostruzione che partirà a breve, con 60 milioni di euro sul piatto, il paese è diventato un set cinematografico. Davanti, nella piazza principale, tutto sembra perfetto: piccoli ristoranti, bar, ombrelloni, bancarelle con la lenticchia, l’oro del Pian Grande, il pecorino e i salumi, motociclisti variopinti, qualche ciclista coraggioso, un pullman che ha scaricato amanti del trekking, persino le caratteristiche scritte bianche, proverbi, filastrocche e vecchie storie di paese, in castellucciano stretto, dipinte sui muri con la calce bianca, un po’ rifatte, un po’ sopravvissute alla Grande Scossa. Dietro le quinte, dove i turisti non vanno, si passa in mezzo a macerie, muri sbrecciati, recinzioni di plastica, paletti di ferro, tubi, tegole, porte che una volta erano di legno. Per ritemprarsi l’anima, però, basta poco, basta guardare in basso, verso il Pian Grande, dove il patchwork dei campi coltivati è come sempre un disegno geometrico perfetto, un quadro disegnato a mano libera da gente che, nonostante tutto, è innamorata del proprio borgo. Sono i custodi di Castelluccio, 5-6 residenti nelle cosiddette Sae (soluzioni abitative emergenziali), in più coloro che salgono la mattina per lavoro, soprattutto negli otto ristoranti collocati nel Deltaplano, la struttura costruita dalla Protezione Civile alle pendici del paese, che la sera tornano in basso, verso Norcia.

LE FATICHE DI OTTAVIO L’appuntamento con Ottavio Testa, produttore di lenticchie, proprietario di una mandria di mucche e di un agriturismo è per mezzogiorno. “Come mi riconoscerà? Mi vedrà arrivare”. Già, impossibile non vederlo quando risale dal piano col suo Case, un trattore rosso da 100 quintali, aratro compreso, computer di bordo, limitatore di velocità e altri optional. Un salto nel futuro per un uomo che arriva da molto lontano. “Ho cominciato nel 1984, appena tornato dal militare. Ho fatto il primo affare riuscendo a vendere la lenticchia, la nostra bellissima lenticchia, con ogni ‘lenta’ diversa dall’altra (ne ha una manciata in mano, ndr) a 6.900 lire al chilo, tenendo duro nella trattativa. Erano 50 quintali, coi soldi ottenuti comperai la prima macchina, una Fiat 127. Adesso, dopo 40 anni, ho 100 ettari di terra, 20-25 dei quali coltivati a lenticchia e cinque trattori. Faccio tutto da solo, perché quassù nessuno vuol venire a lavorare. E per fortuna nell’agriturismo posso contare sull’aiuto di mia moglie Luigia e dei figli Michele e Davide. Ora il prezzo al grossista è di 6 euro al chilo, veramente poco, ma aver puntato sulla qualità mi ha consentito di avere una clientela affezionata e la produzione si vende tutta. Poi c’è la carne delle vacche marchigiane, un centinaio. Vendo i vitelli di 6 mesi che poi verranno ingrassati per 18-24 mesi prima di finire sul mercato. L’inverno le bestie stanno nella stalla a San Marco di Norcia, ma tra qualche giorno faremo la transumanza per portarle qui, rigorosamente a piedi come facevano i nostri padri e i nostri nonni. Il futuro? Noi teniamo duro, resistiamo, ma ci vorrebbe una ricostruzione velocissima e la passione di gente giovane, come ero io e quelli della mia generazione”.


CHILOMETRI PER PASSIONE Anche Vincenzo Perla è uno dei “ragazzi” di Castelluccio, di quelli che hanno fatto le elementari in paese, chiuse con l’ultimo anno scolastico 1982-83 e come ogni paesano che si rispetti ha il suo terreno coltivato a lenticchie. La sua casa non c’è più e durante la stagione fa tutti i giorni avanti e indietro da Ascoli, dove abita ora. “Ma tutto questo non mi pesa”, sorride mentre addenta gli arrosticini da Sandro, trattoria La Campagnola. Riflette: “Questo borgo è la mia vita, ma ho paura che non riuscirò a vederlo rifatto completamente e, soprattutto, con un futuro davanti. Perché non basta riavere le case, poi bisogna farsi venire un’idea per riportare qui la gente, i turisti, senza creare intralci. Come hanno fatto a Rasiglia con l’acqua o a Sellano col ponte tibetano. Noi abbiamo la natura, che va protetta, certamente, ma deve essere accessibile. Ecco, non sarebbe male riparlare dei tunnel ipotizzati tanti anni fa, uno dalle Marche, da Castel Sant’Angelo, l’altro da Norcia, per arrivare in meno tempo, con meno curve e senza navette. Dopodiché bisognerà convincere specialmente i giovani a salire per lavoro. Invece ci sono molte difficoltà, i ristoratori del Deltaplano, che una volta erano tutti dislocati qui in paese, si salvano solo con la gestione famigliare, gli altri soffrono di carenza di personale. Idem per il lavoro con le bestie o nei campi”. Dietro al bancone prepara caffè e panini Francesco Erba, che, nonostante tutto, è sempre rimasto a Castelluccio: “Qui sono nato, in casa perché allora funzionava così, e non mi sono mai mosso. Abito nei piccoli appartamenti creati in via del Deltaplano, cento metri da qui e come tutti guardo al futuro con preoccupazione e un po’ di speranza. Noi siamo sempre aperti, un riferimento per tanti motociclisti che arrivano da tutte le parti d’Italia. L’inverno? Aperti, aperti, anche se nevica. Il paese non c’è più ma è comunque sempre una attrazione”. IL MONDO DI MICHELE Michele Coccia ha 31 anni e, scherzando, gli chiediamo se si sente un po’ il custode del paese, visto che con la madre Nicoletta e la compagna Elene, vivono dal 2019 nelle Sae, costruite nell’area dove c’era la scuola, appartamenti da 60 e 40 mq distribuiti su due piani. “Sì, ci sentiamo un po’ custodi di questo mondo. Mio padre era castellucciano, noi abbiamo abitato per un po’ nelle Marche, in provincia di Fermo, ma poi siamo tornati qui tanti anni fa. Ora ho 100 ettari da pascolo e seminativo (15 dedicati a lenticchie e altri legumi), una sessantina di vacche e, ora come ora, 13 vitelli. Diciamo che si riesce a stare sul mercato, anche se con fatica. I vitelli di 6 mesi si vendono a 6-700 euro l’una le femmine, a 1000 euro i maschi. Se li portiamo a un anno possiamo anche arrivare a 1.500 euro. Orari di lavoro? Scherza? Decide il tempo, decide la natura. Sappiamo quando si comincia, la mattina presto, non sappiamo mai quando si finisce. Le bestie vanno guardate e ascoltate. Se stanno male me ne accorgo subito e arriva il veterinario da Norcia. Il nostro problema principale, se posso dire, è far arrivare qui i turisti. Perché noi viviamo di turismo. I prodotti della terra sono in vendita sulle bancarelle in piazza, lì c’è mia madre che se ne occupa, ma non possono certo bastare coloro che arrivano nei weekend estivi, magari con le navette. Ci vogliono scelte più decise, guardare anche un po’ all’estero. Ho visto i parchi dell’Irlanda. Uno spettacolo: c’è tutto per poter soggiornare, ben inserito nella natura. Qui, per ora, non si può toccare nemmeno una pietra”. PETRUT IL MANDRIANO Petrut ha 34 anni, è rumeno, di cognome fa Oahcea, ed è l’amico di tutti. Ufficialmente fa il mandriano per Ottavio e Michele, ma è considerato un po’ il tuttofare, sempre disponibile, anche solo per pulire il piccolo cimitero o per cambiare le lampadine dei lampioni. Con lui andiamo a vedere come stanno i 17 vitellini, alcuni con pochi giorni di vita. Avvisa: “ci sono i maremmani, non hai paura, no?”. Non abbiamo paura. I bestioni bianchi arrivano, annusano l’ospite inatteso, poi si rimettono sdraiati al sole. Petrut controlla i piccoli dentro al recinto, fuori le mamme emettono cupi muggiti. “Sono gelose, ora li faccio uscire così prendono il latte”. Com’è la vita in questo posto così lontano dal tuo paese? “È il mio lavoro, non mi lamento. Sto qui 9 mesi l’anno, da marzo a novembre, quello che guadagno mi consente di far stare bene la mia famiglia in Romania, mia moglie ed i due gemelli di 9 anni. Sto qui da 13 anni, ne avevo 21 quando venni con mio fratello Ionuz, due mesi a badare le pecore è stato il primo lavoro. Dormo vicino alle mandrie, ho due roulotte affiancate, camera e cucina, mangio in paese, mi rilasso leggendo le storie dei santi (il libro è scritto in rumeno, ma ci fidiamo…; ndr) o scorrendo il cellulare. La sera c’è un silenzio assoluto, si dorme presto. E la mattina dopo si ricomincia”.


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