Nella città del vino più importante dell’Umbria, un gruppo di produttori prova a voltare pagina e a fare vini di qualità e sorprendente longevità. Venite, comprateli ora e apriteli tra 15 anni

Parliamo di Orvieto e cerchiamo subito di inquadrare gli elementi chiave del territorio.


Primo elemento: Orvieto uguale vini bianchi, devastati dalla politica di massimo ribasso al supermercato (dove talvolta capita di trovare le bottiglie a 1,99 euro) perché, come qualcuno ancora dice per i mercati esteri, l’Orvieto è lo sconto del Chianti. Il che significa: il Chianti te lo faccio pagare a prezzo pieno e in cambio ti do anche l’Orvieto, vendilo un po’ come vuoi… Un piccolo aneddoto, questo, che riassume il suicidio assistito di una denominazione dominata da imbottigliatori che non hanno a cuore la crescita del territorio ma vogliono solo massimizzare le loro vendite. Eppure siamo a Orvieto, nel cuore verde d’Italia, una città-gioiello con un Duomo unico al mondo. E che nel vino avrebbe molto da dire, se solo decidesse di puntare sulla qualità. Nel nostro viaggio, superando i pregiudizi – e del resto a che servono i viaggi se non a capire direttamente le cose? – abbiamo incontrato un gruppo di produttori, che si definiscono ORV-Oltre le radici della vite (ma poi l’acronimo diventa l’iniziale di Orvieto), composto da cinque aziende che stanno unendo le forze proprio per rilanciare l’immagine dell’Orvieto, comunicando la complessità e la potenziale longevità del proprio vino d’elezione. E raccontando un territorio che vale la pena di essere vissuto, partendo dalle sue unicità. E questo ci permette di arrivare al punto 2.


Secondo elemento: le grotte. Già nei tempi antichi si diceva che “il buon vino di Orvieto si beve solo a Orvieto”. E non perché gli osti disonesti lo annacquassero nel percorso verso Roma, bensì perché a Orvieto c’erano le cantine naturali, scavate nel tufo, dove la conservazione avveniva a temperatura stabile tutto l’anno. Così il vino era particolarmente buono perché maturava nel suo ambiente naturale. Del resto, si sa, ancora oggi il vino bevuto nel territorio dove nasce è sempre più buono che altrove. Le grotte si trovano ovunque e sono il marchio di fabbrica di Orvieto: ce ne sono alcune in pieno centro, altre nelle cantine sparse in campagna. Visitatele, perché sono il genius loci e poi, se avete il cuore di pietra (lavica) e il social facile, sappiate che sono anche super instagrammabili. Portano like.


Terzo elemento: la longevità. Quella dei vini, s’intende. A un certo punto della serata trascorsa con i produttori di ORV, uno di loro ha detto: “Dove la provi una verticale come questa? Al massimo in una, due denominazioni italiane”. E aveva ragione! In tavola, tra i cinque vini vintage che ciascuno di loro aveva portato, c’era un’annata 1998, vendemmia risalente a 24 anni fa, vino bianco! Fare tasting non è il mio mestiere, ma il pensiero sulle possibile comparazioni di bianchi è andato subito verso le Marche (Verdicchio di Jesi o di Matelica). Non parliamo di bollicine metodo classico perché quello è un altro mondo. Ma la cosa che mi ha più sorpreso è il beneficio arrecato dal tempo all’Orvieto doc: è come se la sua struttura un po’ aggressiva diventasse pian piano più docile. “L’Orvieto è un diesel” ha prontamente aggiunto un altro produttore. E dirò un’altra cosa: l’Orvieto è un vino sincero, perché riflette in maniera plateale la qualità dell’annata. O forse sono sinceri loro, i produttori, che non ricorrono a trucchi e ci offrono solo quello che la natura ha saputo esprimere.


Fissati i tre paletti, andiamo a scoprire le nostre cinque aziende tutte da visitare. Non prima di aggiungere l’ultima considerazione: l’Orvieto da 1,99 euro a bottiglia continuerà a esistere, negli scaffali della grande distribuzione, perché il territorio non è ancora pronto a darsi una strategia di qualità (che il sistema, a partire dal Consorzio di Tutela, dovrebbe pur mettere in atto). Come se ne esce? Andate a farvi un giro a Orvieto, visitate queste aziende e raccontate a tutti che qui c’è anche chi sa fare le cose per bene.


SERGIO MOTTURA


Il simbolo di questa cantina è un’istrice, presente in etichetta. Perché l’istrice? Perché Mottura è un pioniere dell’agricoltura bio (conversione iniziata nel 1991, certificazione dal 1996) e nel momento in cui ha abbandonato le scorciatoie dei trattamenti “convenzionali”, nelle sue vigne sono tornate le istrici. L’azienda produce Orvieto doc ma geograficamente è laziale, perchè si trova nel comune di Civitella D’Agliano. Vale il viaggio per la visita alla cantina storica, risalente al 1600: la foto più bella la vedete sotto ed è quella delle bottiglie di metodo classico con le muffe naturali. Giuseppe Mottura segue personalmente l’accoglienza (oltre a fare mille altre cose, tra le quali il sindaco di Civitella) assieme all’agronoma Beatrice Scorsino: si prenota per mail o telefono, costa 25 euro a persona compresa la degustazione e dura ben due ore (otto vini). Dal 1992 l’azienda dispone di un hotel e agriturismo, La Tana dell’Istrice, con dodici camere ma attualmente chiuso per ristrutturazione. Quando riaprirà, non perdetevi il piatto forte: oca al forno abbinata al 100% Grechetto “Latour a Civitella”.



CANTINE NERI


Qui si torna a Orvieto e il luogo è davvero suggestivo. Le barrique sono custodite in un’antica tomba etrusca che poi, nel corso dei secoli, è stata anche utilizzata come rifugio dai pellegrini in viaggio dalla via Romea alla Francigena. L’attuale proprietà di Neri era infatti un punto di riferimento e sosta perché si trova esattamente al centro di tre chiese: San Pietro e Paolo, Santa Maria delle Grazie, Santa Maria del Piano. A gestire l’azienda è Enrico Neri, che aveva iniziato come coltivatore e conferitore ma poi ha voluto fare un passo oltre, diventando vinificatore dal 2006. L’accoglienza si basa su diverse formule: si parte dal tasting di tre vini “Vista Rupe” offerto al prezzo di 15 euro per arrivare ai 50 euro della verticale dell’Orvieto denominata “Sulle orme dei templari” (con piatti in abbinamento) per arrivare infine a una proposta che unisce i vini dell’azienda con assaggi alla cieca di altri vini che piacciono a Enrico (70 euro). L’azienda agricola non fa solo vino: ci sono le galline ovaiole livornesi e le pecore Zackel, in via di estinzione.



PALAZZONE


Giovanni Dubini si presenta con questa frase: “Elio Altare, il mio mentore, mi disse: noi non produciamo vino, produciamo piacere”. Elio Altare era uno dei “Barolo Boys” e dalla frequentazione con lui e con gli altri pionieri del Barolo nel mondo (Dubini ci ha raccontato storie spassosissime che non riveleremo nemmeno sotto tortura, ma con un buon calice potremmo essere corruttibili) si può comprendere il suo pallino per la qualità. E non solo nel vino. La sua locanda Palazzone è un gioiellino. Faceva parte di un edificio molto più ampio, probabile rifugio dei pellegrini, diventato un magazzino che crollava a pezzi. Il recupero è stato esemplare (“Ci hanno lavorato 140 persone” precisa) e oggi offre sette camere arredate con gusto e una colazione 100% con prodotti del territorio. A quel punto, già che il recupero era stato ultimato, ha convinto la moglie Cristiana a lasciare l’insegnamento e a prendere in mano la gestione, convincimento che Cristiana ancora non ha perdonato al marito, ma questa è un’altra storia… Il senso di soggiornare a Palazzone è vivere la storia del luogo ed entrare un po’ in famiglia con Cristiana, con il figlio Pietro, con i gatti e con il cane Duccio. “Il futuro della mia azienda e del territorio sarà l’unione tra vino e turismo” dice Giovanni. I vini di Palazzone? 130 mila bottiglie l’anno, 50 mila delle quali sono del loro vino bandiera, Terre Vineate. Comprateli, metteteli in cantina e dimenticateveli per molto tempo… Poi ne riparleremo!



LE VELETTE


Quest’azienda ha scritto pagine di storia perché è pluripremiata fin dall’Ottocento, quando ancora si chiamava Fratelli Felici e produceva vini piuttosto strani per il territorio (abbiamo pure notato un’etichetta di Tokai). Corrado Bottai rappresenta la sesta generazione della famiglia fondatrice e parla del padre come del fautore del rilancio, a partire dal 1968, di Le Velette. Ma anche lui ci ha messo del suo, recuperando quattro casali lasciati liberi all’epoca della mezzadria e trasformandoli in alloggio: si chiamano Le Lodole, Belvedere e Palazzina, con tanto di piscine per la bella stagione. “La nostra idea di enoturismo è basata sulla degustazione per piccoli gruppi e sul mettere a disposizione una casa in campagna, senza preparare colazioni e senza rifare le camere perché non siamo albergatori ma siamo vignaioli” racconta Bottai. Il tasting è organizzato nell’apposita sala attrezzata per piccoli gruppi, mentre per quelli più numerosi si passa all’interno della villa padronale presente nella proprietà de Le Velette. Bottai ne ha viste tante in questi anni, e avrebbe avuto tutte le ragioni per diffidare rispetto a possibili azioni di rilancio della denominazione, ma non ha perso le speranze e soprattutto non ha perso l’energia. “Orvieto oggi non ha valore, nel vino, perché non ha voluto raccontare il proprio valore. E il proprio valore è il territorio”. Non è mai troppo tardi.



MADONNA DEL LATTE


Ed ecco l’esempio più incredibile di come non sia mai troppo tardi e di come talvolta le idee per creare valore arrivino da posti lontani… Leon Zwecker, come si intuisce dal nome, non è propriamente orvietano doc. La sua famiglia ha investito nel 2000 acquistando un rudere e un terreno abbandonato, con l’idea di fare agricoltura e vino. Lui, tedesco di Baviera, ha studiato enologia in Austria, lavorato a Sonoma (California) e Marlborough (Nuova Zelanda) prima di dedicarsi, dal 2008, alla tenuta di famiglia. “All’inizio pensavo: farò tutto tranne l’Orvieto, perché era un vino che non mi interessava. Poi mi ha appassionato e oggi ne faccio 3mila bottiglie su 20mila”. La passione gli è venuta strada facendo, confrontandosi con gli altri produttori e riuscendo a comprendere la grande diversità dei terreni della denominazione, che danno vita a espressioni differenti e complesse dei bianchi di Orvieto. Ma arriviamo al sodo: qual è il contributo innovativo di Zwecker. Fa 100% vendita diretta, di cui 60% in cantina e 40% con consegna a domicilio. Le sue bottiglie non passano per le mani di nessun distributore o agente. Come fa? Ha utilizzato gli strumenti digitali (soprattutto le newsletter) per far conoscere Madonna del Latte a una community piuttosto ampia e d’inverno, per un mese, parte con la compagna Ruta per gli Stati Uniti e organizza cene a casa dei clienti portando i suoi vini dall’Italia e facendoli gustare agli ospiti degli ospitanti, così poi la voce circola… Resta solo una cosa da capire: come fa a vendere il 60% della sua produzione direttamente in azienda? Leon ci risponde: “Vai a vedere TripAdvisor e cerca ‘cose da fare a Orvieto’…”. Lo facciamo e al primo posto troviamo: visitare Madonna del Latte. Per la cronaca, il Duomo è indietro di quattro posizioni.



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