Dalla città dell’acciaio all’Appennino umbro-marchigiano, le acque del fiume Nera conducono nei luoghi in cui «il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti» scriveva Italo Calvino ne Le città invisibili.


Terni è la città dell’acqua. Lo sapevano bene i romani che la definirono Interamna, tra due fiumi: il Nera – o la Nera, come la chiamano i ternani, riconoscendole la forza femminile in grado di generare – e il Serra. Alla fine dell’Ottocento, l’ampia disponibilità idrica determinò uno sviluppo industriale e una crescita demografica che non ebbero mai più eguali, trasformando la città da realtà minore a importante testimone della rivoluzione industriale italiana, soprattutto nel settore metallurgico.


Negli stabilimenti siderurgici della “Terni” – come da sempre viene chiamata la società che controlla le acciaierie – e nella Fabbrica d’Armi venivano prodotti cannoni, corazze navali e parte del materiale bellico necessario ai combattimenti della Seconda guerra mondiale. La “città dell’acciaio dalla poderosa attrezzatura tecnica” recitava un filmato dell’Istituto Luce nel 1940, quando il duce ne visitò le strutture. Una definizione che ebbe molta fortuna sin dall’Ottocento per un’efficienza che la città pagò a carissimo prezzo: in soli dieci mesi – dall’11 agosto 1943 fino alla sua Liberazione (13 giugno 1944) – su Terni si abbatterono oltre cento incursioni aeree che causarono diverse centinaia di vittime, in gran parte civili, e l’80% del contesto urbano distrutto. Per questo, la città fu insignita della Medaglia d’Argento al Valore Civile. Molti altri scamparono alla morte grazie ai rifugi antiaereo, visitabili tutt’oggi, come palazzo Morelli e le carceri di palazzo Carrara, benché il sistema di protezione antiaerea fosse sostanzialmente inadeguato, a partire da quello di allarme non sempre funzionante – come accadde il 14 ottobre 1943 – e l’approssimazione con la quale, da fine anni Trenta, erano stati realizzati i rifugi, sia per le vie cittadine che in prossimità delle fabbriche. La guerra aerea sulla città d’acciaio e immediati dintorni ebbe un’incidenza tale da costringere la popolazione a un massiccio sfollamento: all’ingresso delle truppe inglesi a Terni, come detto il 13 giugno 1944, si stima vi fossero circa duemila persone in città.




L’attività industriale ternana viene celebrata da un numero sempre maggiore di creazioni artistiche che ne costellano strade e parchi, e che ne fanno una delle città italiane con il più vasto patrimonio di arte pubblica. Alcuni esempi sono l’obelisco Lancia di Luce dell’artista Arnaldo Pomodoro che esalta la lavorazione del metallo dalla fase grezza alla finezza del prodotto finito; Composizione di Forme dello scultore Umberto Mastroianni simboleggia il lavoro svolto dagli uomini e dalle macchine; Preghiera del maestro d’arte Fernando Dominioni ricorda i caduti sul lavoro in un intreccio di bronzo che si fa dolore e pianto. Altro simbolo industriale è la Grande Pressa, nel piazzale antistante la stazione ferroviaria, le cui dodici tonnellate la resero la più grande al mondo nel 1935. Mentre scoverete queste gemme di arte contemporanea, il “cristallo blu dei monti umbri”, per citare il poeta Vjačeslav Ivanov, farà da sottofondo ad ogni vostro passo.


Alla città fu conferita anche la Croce di Guerra al Valor Militare per la sua attività partigiana, svolta anche in fabbrica, dove si difendeva il lavoro anche con le armi. Come nel 1944, quando alcuni macchinari delle acciaierie furono messi in salvo grazie ad azioni di sabotaggio degli operai, che impedirono alle truppe naziste di impossessarsene per spostare la produzione in Germania. In alcuni casi, i macchinari furono recuperati solo mesi dopo la fine della guerra. Scrive l’accademico e fondatore della storia orale Alessandro Portelli in La città dell’acciaio: «La presenza degli operai in montagna è limitata dal bisogno di lavorare in fabbrica per mantenere le famiglie. Molti collaborano come irregolari a singole azioni, altri danno vita ad azioni gappiste, contribuiscono sul piano logistico e finanziario (…) e soprattutto rifiutano di partecipare alle corvée richieste dai tedeschi». Fu un operaio delle acciaierie divenuto comandante della Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci”, Dante Bartolini, a comporre quella che secondo Portelli è “la canzone più bella sulla Resistenza” che in versi ne narra l’essenza: «Senza paura, o vincere o morir, ora la nostra patria dobbiamo ripulir. Dopo l’otto settembre, l’armistizio, l’esercito italiano fu sbandato e pe’ non mandarlo in precipizio l’esercito si forma partigiano. Contro i fascisti e il barbaro invasor presero l’arme in mano per acquistar l’onor». La “Gramsci” umbra fu una delle prime Brigate Garibaldi ad operare nell’Italia centrale, svolgendo azioni tra la Valnerina e le zone appenniniche umbro-laziali. Il Lungonera ne ricorda uno dei protagonisti: Germinal Cimarelli, operaio delle acciaierie che il fascismo condannò al confino, morto nel 1944 sul monte Torre Maggiore per proteggere il distaccamento da lui comandato durante un rastrellamento nazifascista. È il nome legato alla Liberazione più conosciuto nella zona, che rimbalza con ammirazione sulle bocche di chi lo pronuncia.

Emblema delle voragini lasciate dalle bombe è largo Villa Glori, una grande buca che Mario Ridolfi – importante architetto a livello nazionale che curò la ricostruzione postbellica della città, con la collaborazione di Wolgang Frankl, urbanista che fuggì dalla Germania nazista – volle mantenere, trasformandola in una grande panca di cemento, celebrando la vita dove ci fu la morte. Uno spazio che punta in modo suggestivo verso la chiesa di San Francesco, sulla cui facciata laterale sono collocati i nomi delle vittime impressi su lastre di metallo. «A Terni periferia fa rima con poesia» scriveva Paolo Portoghesi, altro esponente dell’architettura italiana, su Repubblica nel 1984. «È una poesia rigorosa, razionale, seria. In continuità con la centralità del lavoro nella storia della città, la Terni di Ridolfi ha il colore della pietra a vista e lineamenti rosso-ruggine, eleganti e severi, raramente vivaci e colorati». Un bell’esempio è rappresentato da Palazzo Chitarrini, dai balconi triangolari che affacciano su largo Villa Glori. La pietra sponga è una materia prima molto disponibile sul territorio, opera delle acque calcaree del Nera a contatto con i sedimenti e per questo già in uso nell’edilizia ternana, visibile nell’Anfiteatro romano e in alcune strutture medioevali. In tutta la zona ternana sono ancora intatte le grotte scavate nella sponga per diversi scopi nel corso dei secoli, utilizzate dai contadini del luogo come rifugi antiaereo.


«A Terni periferia fa rima con poesia» scriveva Paolo Portoghesi, altro esponente dell’architettura italiana, su Repubblica nel 1984. «È una poesia rigorosa, razionale, seria. In continuità con la centralità del lavoro nella storia della città, la Terni di Ridolfi ha il colore della pietra a vista e lineamenti rosso-ruggine, eleganti e severi, raramente vivaci e colorati». Un bell’esempio è rappresentato da Palazzo Chitarrini, dai balconi triangolari che affacciano su largo Villa Glori. La pietra sponga è una materia prima molto disponibile sul territorio, opera delle acque calcaree del Nera a contatto con i sedimenti e per questo già in uso nell’edilizia ternana, visibile nell’Anfiteatro romano e in alcune strutture medioevali. In tutta la zona ternana sono ancora intatte le grotte scavate nella sponga per diversi scopi nel corso dei secoli, utilizzate dai contadini del luogo come rifugi antiaereo.


L’unione tra Mario Ridolfi e Terni si era già affermata anni prima con la realizzazione della fontana dello Zodiaco in piazza Tacito (storico romano che secondo alcuni studiosi qui ebbe i natali): un monumento della storia industriale della città legata all’acciaio e all’acqua, che genera energia. Fu uno dei simboli del contrassegno monumentale che Mussolini volle imprimere alla città, dopo averla elevata a rango di capoluogo di provincia nel 1927. Ridolfi affermerà in seguito, a proposito della sua adesione al fascismo: «Non ero abbastanza colto per difendermi, né abbastanza coraggioso per uscirne fuori, avevo famiglia e molti figli».


Da qualche decennio, la storia cittadina viene vivificata attraverso il recupero da parte delle istituzioni del patrimonio industriale dismesso. “Da fabbrica chimica a fabbrica della cultura, così nasce la spina dorsale della nuova città creativa” riporta il sito ufficiale del Centro Arti Opificio Siri (CAOS), ex centro per ricerche e lavorazioni chimiche di proprietà della Società Italiana Ricerche Industriali: 5600 metri quadrati che ospitano il museo d’arte moderna e contemporanea, il museo archeologico, due teatri, spazi adibiti a laboratori creativi e conferenze, una biblioteca, una sala proiezioni e un caffè-ristorante, circondati dalle case in stile Liberty del quartiere Città Giardino.


In particolare, il museo archeologico del CAOS ospita la tomba detta di Serapia e Sabino, protagonisti di una leggenda popolare molto conosciuta tra gli abitanti della città, scoperta nel 1909 nella necropoli trovata nelle acciaierie e risalente all’età del ferro. Benché diversi studi ne hanno dimostrato l’inesattezza, i corpi della tomba continuano ad essere identificati comunemente come i due ragazzi innamorati, cristiana lei e pagano lui, osteggiati dalle rispettive famiglie. Solo la conversione di Sabino allieterà gli animi, ma durante i preparativi Serapia si ammalò di tisi. Al suo capezzale il vescovo Valentino battezzò prima il giovane e poi unì i due amanti in un sonno che li legò per l’eternità. Il 14 febbraio di ogni anno, generazioni di coppie innamorate lasciano biglietti d’amore nella cripta della basilica di San Valentino, patrono della città.


Un modello di edilizia popolare che rende Terni interessante anche da questo punto di vista, è il Villaggio Matteotti: orti pensili, appartamenti indipendenti, connessi da percorsi pedonali che consentono la socialità degli abitanti. Venne commissionato nel 1969 dalle acciaierie Terni all’architetto Giancarlo De Carlo e rappresenta l’unico esempio di architettura partecipata in Italia. Durante la sua progettazione furono coinvolti non solo gli abitanti che esposero le loro necessità, ma anche una serie di professionisti, tra cui il sociologo Domenico De Masi. È interessante anche per la toponomastica che commemora l’apporto femminile alla storia, ricordando quanto le donne non fossero solo spose e madri: Argentina Altobelli, prima donna a rivestire l’incarico di segretario della Federazione Nazionale Lavoratori della Terra; Anna Maria Mozzoni, che fondò nel 1881 la Lega degli interessi femminili (diritto allo studio e al voto, parità tra i sessi), associazione che concorse alla nascita del Partito socialista italiano; Irma Bandiera, donna della Resistenza torturata e uccisa dai nazisti; Gisa Giani, storica ternana; Malala Yousafzai, attivista pakistana per il diritto all’istruzione e premio Nobel per la pace nel 2014. E l’elenco è ancora lungo.


L’opera Fonte dell’artista Giovanna De Sanctis, situata evocativamente in viale della Rinascita, racconta il legame atavico tra donne e acqua attraverso mani di bronzo che accolgono la vita. Un segno, questa volta per ammonire la popolazione femminile, è sulla sinistra del portale della cattedrale di Santa Maria Assunta, dove al centro di un’impronta di una scarpa c’è un solco di 80 millimetri: l’equivalente degli 8 centimetri di tacco proibiti alle donne in base ad una legge erogata nel 1444 per arginare i costumi di bassa moralità. Varcando la soglia della cattedrale, si potrà ammirare l’organo costruito nel 1647 su disegno di Gian Lorenzo Bernini.


L’elemento acqua ci conduce nelle viscere di Narni, aggrappata a strapiombo sul Nera. Le profondità dell’ex convento dei frati dominicani – oggi auditorium civico, ristrutturato dopo i crolli a seguito dei bombardamenti del 1943 – ospitano una cisterna di epoca romana su cui venne costruito un ipogeo per il culto di san Michele Arcangelo, taumaturgo e protettore delle acque curative. Ma ciò che sorprende è oltre il vano dagli affreschi bizantini dedicati all’Arcangelo, fondato sul sangue più che sull’acqua: è la “stanza dei Tormenti” dove ebbe luogo il tribunale dell’Inquisizione, unico esempio in Italia e ancora attiva nel XVIII secolo. Sulle sue pareti sono visibili le tracce di chi ha trascorso parte della sua vita accusato di eresia tra quelle quattro mura, incidendo date e simboli massonici da far accapponare la pelle. Il tribunale indagava attraverso atroci pratiche di tortura che molto spesso si concludevano con la confessione per sfinimento dell’ipotetico reo, seguita dalla prevedibile sentenza di morte. La storia degli inquisiti e di tutte le vicende che hanno portato prima alla scoperta e poi all’analisi dei fatti avvenuti tra quelle mura – confermati dagli archivi del Vaticano – è diventata un libro narrata da Roberto Nini, uno degli speleologi che nel 1979 “hanno spalato fango e meraviglia”. Nella sala d’attesa, in bella vista, un articolo di Paese Sera parla dell’inaudito evento, tra le foto dei protagonisti.


Poco distante, sulle rive del lago di Piediluco acqua e fuoco si incontrano in una ritualità che risale all’epoca romana, quando attraverso l’accensione del falò del solstizio d’estate al centro del lago si propiziava la fecondità della terra e un raccolto generoso. Oggi residui di quel rito persistono nella Festa delle Acque, dove ogni anno il lancio delle frecce infuocate degli arcieri storici accende il falò tra le acque. La cerimonia continua a donare bellezza con la sfilata delle barche allegoriche – un tempo legate alla fecondità della terra e che oggi rappresentano storie locali o tematiche di attualità – concerti e recital di poesia, ma soprattutto per lo spettacolo pirotecnico che si riflette sul lago, dove l’esaltazione dei poteri della luce e del fuoco, dell’acqua e della terra chiudono il rito propiziatorio del mondo contemporaneo.


Da Piediluco, Terni e da altri centri della provincia, 300 uomini, molti dei quali già componenti della Brigata “Gramsci”, scrissero una pagina poco nota della Resistenza: era il 2 febbraio 1945 e partirono alla volta del Nord ancora occupato dal nazifascismo, per il gruppo di combattimento “Cremona”, proseguendo e terminando la lotta di Liberazione nazionale, stavolta, arruolati in uno dei ricostruiti corpi dell’Esercito italiano, aggregato all’Ottava armata britannica.


In questo tratto, la Nera ci guida insieme al fiume Velino (che lascia il lago di Piediluco) in un’opera idraulica creata nel III secolo a.C. per bonificare la piana reatina. Una leggenda molto suggestiva narra di Nera, figlia del dio Appennino, innamorata di Velino, giovane pastore. Un amor profano degno dell’ira di Giunone, che punì Nera portandola sulla cima del monte Vettore per trasformarla in fiume. Velino, interrogata una sibilla e saputo l’accaduto, disperato si gettò dalla stessa rupe per unirsi alla sua innamorata in un salto di 165 metri che la rendono una delle cascate più alte d’Europa: le Marmore. Lo spettacolo della straordinaria forza della cascata che «di spavento l’occhio beando, impareggiabil cateratta, orribilmente bella» scriveva il poeta George Byron, si dipana in sei sentieri dalla vegetazione lussureggiante. All’ingresso del Belvedere superiore, la poesia di Piero Calamandrei (membro dell’Assemblea Costituente) dedicata a Albert Kesselring (comandante della Wehrmacht in Italia) è incisa su due steli di marmo che commemorano Pietro Montesi, ucciso dai nazifascisti nel 1944 per aver sostenuto con cibo e denaro i partigiani.


Lungo la statale 209, la corrente del fiume Nera, animata dagli sportivi del rafting, ci porta a Sant’Anatolia di Narco e ai terreni alluvionali denominati canapine. Siamo in Valnerina e, come in gran parte dell’Umbria, qui la canapa è stata coltivata fino alla prima metà del Novecento, quando la diffusione massiccia del cotone e delle fibre sintetiche ne ha determinato la scomparsa. Fu uno dei tessuti più utilizzati in Italia e in pieno regime autarchico ottenne il riconoscimento per la migliore qualità al mondo. In Valnerina era così diffusa che diede origine alla caratteristica forma a pera della ricotta salata, lasciata appesa ad asciugare in un sacco composto da questa fibra.

«Quando c’era lui con la canapa sì che si lavorava! Ora la vediamo solo al museo» mi dice nostalgicamente un uomo dalla chioma bianca e gli occhi vivaci, dopo avermi indicato la strada per il Museo della Canapa. In realtà, l’uso di questa fibra tessile risale al XVI secolo e deve la sua affermazione non all’autarchia ma alla globalizzazione: con la scoperta dell’America e l’avvio dei viaggi transoceanici, Ancona diventa il principale centro produttivo della materia prima necessaria a realizzare vele, corde e sacchi, tanto che alla fine dell’Ottocento l’Italia copre il 17% della produzione mondiale, seconda solo alla Russia. Parte della materia prima che arrivava dall’India attraverso il porto di Ancona, veniva lavorata anche allo iutificio Centurini di Terni. Tuttavia, nel periodo autarchico le cose cambiano. «Nell’Italia rurale del Ventennio – scrivono gli storici Carlo Poni e Silvio Fronzoni in Una fibra versatile. La canapa in Italia dal Medioevo al Novecento (Clueb, 2005) – la manodopera è ancora abbondante. Il regime ne ha represso le richieste salariali, i proprietari traggono ancora, da produzioni elevate, un modesto guadagno. Ma l’equilibrio della coltura è precario. Sarà sufficiente che il quadro economico nazionale inizi la conversione dell’antica economia rurale in economia manifatturiera per determinarne il tracollo definitivo e irreparabile». E ancora: «Se nel 1928 il valore della produzione è stato equivalente a un miliardo di lire, solo tre anni più tardi quel valore è sceso a 470 milioni. Una coltura che impone anticipazioni tanto cospicue non può sopravvivere tra fluttuazioni tanto ingenti». Il Museo della Canapa – che fa parte del Centro per la Documentazione e la Ricerca Antropologica in Valnerina e nella dorsale appenninica umbra (CEDRAV) – ha intrapreso diversi progetti volti al recupero, alla conoscenza e alla lavorazione di questa fibra con il supporto dei tessitori di un tempo, colmando un vuoto di saperi di mezzo secolo.




«La Valnerina è il centro della lotta che al nemico gli fa la strada interrotta» cantava Dante Bartolini, aedo della Resistenza e comandante di battaglione della Brigata “Gramsci”. Gavelli, frazione di Sant’Anatolia e un tempo sotto il controllo del Ducato di Spoleto, è il clavellum, la chiave d’accesso al territorio montano della Valnerina e avamposto fortificato a difesa della Val di Narco. Ritratto della maestosa bellezza dell’umbilicum Italiae, scriveva Catone, dai suoi oltre mille metri di altitudine nulla sfugge. Per accedervi bisogna attraversare l’unica porta medioevale rimasta intatta allo scorrere del tempo, ma una targa ferma il passo di chi vuole varcarla. «Base operativa della prima formazione partigiana della Valnerina, organizzata dal capitano Ernesto Melis costituita da circa 100 uomini». Di fede monarchica, Ernesto Melis fu un ufficiale di carriera dell’Accademia di Modena che, dopo l’8 settembre, decise di opporsi con le armi al nazifascismo. Furono molti gli ufficiali del Regio esercito a intraprendere questa strada, benché per i disertori e i renitenti alla leva fosse prevista la pena di morte, nonché rappresaglie per le loro famiglie. La Banda Melis rappresentò una delle anime che componevano il movimento della Resistenza, in cui confluirono tutte le accezioni politiche dell’antifascismo: democristiani, liberali, repubblicani, monarchici, anarchici, comunisti, socialisti, uniti dall’impegno alla lotta al nazifascismo e coordinati dal Comitato di Liberazione Nazionale presente in ogni regione italiana, occupata o liberata. Di matrice comunista erano invece le Brigate Garibaldi.


L’imponente scultura del duca longobardo Teodelapio dà il benvenuto a chi arriva a Spoleto in treno. Opera dello scultore Alexander Calder e simbolo del Festival dei Due Mondi – manifestazione internazionale di cultura che qui si svolge dal 1958 –, tra le arcate delle sue lamiere di ferro, l’intero prospetto della città verte sulla maestosa Rocca Albornoz. Nell’ottobre del 1943, dalle sue carceri fuggirono qualche centinaio di detenuti, fra cui molti “slavi”, oppositori politici catturati nel loro Paese. Un episodio che ha fornito linfa determinante per lo sviluppo della Resistenza in questa parte di Umbria, regione che altresì «rappresenta un autentico campionario di tutte le tipologie del sistema repressivo di regime: internamento di politici italiani, dissidenti albanesi, oppositori montenegrini (Colfiorito e Pissignano); luogo di confino per politici, allogeni ed ebrei stranieri (16 comuni della provincia di Perugia); luoghi di detenzione (Colfiorito, Pissignano) e di lavoro obbligatorio (Morgnano di Spoleto, Ruscio, Bastardo, Marsciano, Pietrafitta, Castel Sereni, Ellera di Corciano, Casemasce di Todi) per prigionieri di guerra ed internati civili; carceri (Perugia e Spoleto)», come riporta l’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea.


Il campo di lavoro per prigionieri di guerra fu attivo nelle miniere di Morgnano di Spoleto dal 1942. Durante il periodo autarchico alcune materie prime di importazione vennero sostituite da quelle presenti sul territorio nazionale, come avvenne per il carbone del Regno Unito rimpiazzato dalla lignite di cui la regione è ricca: erano attive ben 28 miniere. In pieno conflitto mondiale, la forte richiesta di carburante per la produzione di materiale bellico delle acciaierie di Terni fece sì che qui lavorassero molte migliaia di persone in un complesso che comprendeva autorimesse, officine, forni per la lavorazione del prodotto estratto, infermeria, sala macchine per il controllo della teleferica per il trasporto della materia prima e case per gli impiegati e per il direttore. Anche qui il lavoro venne difeso con le armi. Era il 15 giugno 1944 e un battaglione nazista, nel tentativo di distruggere le attrezzature per l’estrazione, fu bloccato dai minatori e dai contadini armati. La miniera fu attiva fino al 1955, quando un’esplosione causò la morte di 23 operai, decretandone la chiusura.




Oggi della miniera resta la struttura del pozzo Orlando su cui sorge il museo, dove sono custoditi preziosi materiali di recupero negli arredi interni, strumenti, foto e quanto appartenne a chi rese quel luogo “una pagina eroica della fatica umana”, recita una targa a loro dedicata. «Il pozzo venne acquistato dal Comune ed è l’unico luogo istituzionale. Tutto il complesso di proprietà della Terni è stato venduto a diversi proprietari – spiega Lucio Crivelli, uno dei volontari dell’associazione che gestisce il museo –. Per esempio, la fornace fu acquistata da un privato che l’ha trasformata in fabbrica che poi è fallita. Ora è all’asta. Il terreno intorno all’essiccatoio, sempre di proprietà privata, è in vendita. Potrebbe essere un momento per fare di più e tramandare questa storia ad un numero sempre maggiore di persone». Intorno ampie coltivazioni di vitigni ricordano che ci troviamo in terra di Trebbiano, vino a denominazione di origine controllata delle tavole spoletine.


Dal campo di lavoro al Territorio Libero di Cascia e Norcia, il primo esempio di repubblica partigiana in Italia, che comprendeva comuni fra le province di Perugia, Terni e Rieti. Fu attiva tra febbraio e marzo 1944, con piena autonomia nella gestione dell’ospedale civile, nella distribuzione di derrate alimentari alla popolazione, nell’istituzione di un comitato di sostegno alle donne, di un tribunale militare. Terminò a causa di un rastrellamento da parte dell’esercito nazista, dove persero la vita oltre cento tra civili e partigiani. Fu altresì un’esperienza rilevante non solo da un punto di vista politico, ma anche sociale per le sinergie che creò tra la componente civile, partigiana e straniera dei partigiani jugoslavi.

Cascia, Norcia e tutta la zona a cavallo dell’Appennino tra Umbria, Lazio e Marche, colpite dal sisma del 2016, sono divenute epicentro di un’altra forma di resistenza, quella che l’antropologia contemporanea ha definito restanza: l’atto di chi resta non per pigrizia o debolezza, ma per coraggio, battendosi, consapevolmente o meno, contro l’abbandono e lo spopolamento delle aree interne dell’Appennino Centrale, preservandole e dando loro nuova vita. A Norcia, la stessa statua di San Benedetto, illustre nursino fondatore del monachesimo occidentale e patrono d’Europa, sembra indicare con la mano lo scempio che il sisma ha fatto della sua basilica, di tutte le gemme architettoniche del territorio, delle abitazioni delle persone, mentre nei centri storici, lentamente, le attività commerciali ricominciano ad animarli.


Tra maggio e luglio questa terra offre un altro fenomeno straordinario: la fioritura dalle tonalità variopinte dell’altopiano di Castelluccio di Norcia vi commuoveranno di stupore. Siamo alle pendici dei Monti Sibillini, da dove nasce il fiume Nera. «Andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati – esortava Piero Calamandrei, in un discorso del 1955. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione».


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