Rileggendo il mio taccuino di “viaggio”, lo trovo pieno d’impressioni e d’appunti. Ogni appunto è un ricordo di quelle giornate scandite dal suono della campana del paese. Sono salito spesso fin quassù, come turista e come giornalista. Ho scritto tanti articoli su Castelluccio e sono ritornato subito dopo il terremoto, quando quell’onda mugghiante, rotolata giù dal Vettore, si è infilata nei vicoli lastricati, tra i muri di pietra delle case e delle stalle. Li ha scossi, raschiati, crepati, butterati. Ha percorso l’intero paese, col rantolo sordo di un vento uscito improvviso dal ventre della Sibilla. Adesso, però, vorrei mettere insieme solo le reminiscenze di quei giorni felici, annodando i racconti.

Da anni, infatti, erano caduti in disuso perticaia, giogo e roncola. Tutti attrezzi agricoli che, per secoli, hanno caratterizzato la storia delle nostre montagne.

Soprattutto, la dura lotta di ogni giorno sui campi. Una vita difficile, fatta di sacrifici, che adesso si tramanda solo nel ricorso degli anziani. Ricordi che ci fanno quasi sorridere e a cui molti non credono. Sembra impossibile, infatti, che gli uomini di Castellucci cercassero, ogni giorno, con l’ingegno e il sacrificio, soluzioni semplici ai problemi spesso complessi.

Molti, inoltre, non credono che si consumava soltanto ciò che la terra procurava, come la lenticchia, considerata la carne dei poveri. La differenza la faceva il raccolto, se misero o abbondante; oppure la malattia se colpiva duramente. Uomini e donne erano abbrutiti dal lavoro, perché nessuno si risparmiava: finiti i lavori sui campi e nella stalla, gli uomini si adattavano a fare, di volta in volta, il fabbro, il muratore, il falegname, il calzolaio, l’idraulico. Ripetendo regole acquisite con l’esperienza dai loro padri e dai loro nonni.

Le donne, invece, oltre ad accudire i figli, la casa, gli animali e preparare il pranzo, impastavano il pane e poi accendevano il forno per cuocerlo.

In paese, ancora oggi, si danno tutti del tu. La domenica e in alcune ore del giorno, molti si ritrovavano nella piazzetta, il salotto della conversazione, per parlare del tempo, di un parente o di un amico ricoverato in ospedale, del raccolto, delle cose di ogni giorno.

A ritrovarsi erano soprattutto gli anziani, perché i giovani, quei pochi che erano rimasti, preferivano l’anonimato della città.

Eppure, qui c’era la serena vita d’un tempo; la forza e gli urti della coscienza. La dimensione umana del paesello, con i suoi forti valori e anche i suoi screzi. La gente non stringeva in mano il telefonino.

C’era entusiasmo nel vedere giovani e anziani ballare il saltarello, al suono di un organetto. Si applaudiva anche chi cantava e non era intonato. Insomma, nei miei appunti ho ritrovato il recupero della “memoria” dei loro antichi affetti, quel cuore semplice e onesto che ancora pulsa dell’identità dell’uomo.

Da secoli, a Castelluccio, storia e natura s’abbracciano in un incastro perfetto. Ogni angolo sorprende, emoziona, cattura. Non solo per i suoi colori, per l’eccezionale qualità ambientale e naturalistica, ma anche per il carattere degli abitanti: pacifici, rispettosi, strani, laboriosi e permeati di proverbiale saggezza.


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