Menzione speciale

TESTATA: Quattrocolonne

DATA DI PUBBLICAZIONE: 31 Marzo 2016

Arte birraia e cura dello spirito. La storia dei monaci di Norcia e del loro birrificio. E di quell’Umbria che, senza dimenticare la tradizione, sta scoprendo una nuova tecnica: quella del luppolo

Ut laetificet cor. Dio ha dato il pane all’uomo per rinforzare il cuore e il vino per allietarlo. Il salmo 103 recita più o meno così. «Solo che noi al posto del vino preferiamo la birra». Frate Agostino Wilmeth è uno dei monaci benedettini di Norcia. Ha 23 anni e viene dal South Carolina. Al birrificio è lui il manager: cura gli ordini e le spedizioni, segue la corrispondenza. Birra Nursia è nata nel 2012 da un’idea di alcuni frati che, per sostenere le spese dell’abbazia, hanno pensato di far rientrare in quel “labora” della regola di San Benedetto anche la lavorazione di malto e luppolo. «Da quando è arrivata la crisi economica nel 2008 abbiamo capito che dovevamo fare qualcosa di più per sopravvivere». A molti di loro la birra è sempre piaciuta e così hanno deciso di visitare le abbazie belghe dei monaci trappisti per imparare a produrla da soli e apprendere i segreti del mestiere. «Abbiamo fatto una sorta di stage — racconta ridendo Fra Agostino — Tornati a Norcia abbiamo preso un garage dove c’era un’officina meccanica e lì abbiamo iniziato a fare la birra». All’inizio ne hanno prodotto 250 litri, oggi sono 1200. Quasi 3o.ooo bottiglie al mese.

Ora et labora. La vita monastica è molto rigorosa: il digiuno di San Benedetto impone di mangiare una sola volta alle 17,30 da settembre fino a Pasqua, il canto che inizia alle 4 tutte le mattine, l’obbligo del silenzio e l’astinenza dalla carne. Poi c’è il lavoro manuale, che unisce la comunità. Come nel caso del birrificio. A dirigerlo c’è Fra Martino («lui è il nostro economo», spiega Agostino), insieme a Fra Andrea, che viene dal Canada ed è addetto all’etichettamento, imbottigliamento e preparazione dei bancali. Ma a detenere il segreto della birra è don Francesco, «uomo alto e texano» (come lo definisce Agostino). È lui il mastro birraio. Tutti i confratelli però contribuiscono a mandare avanti lo stabilimento e a gestire il loro punto vendita, Corvus et Columba, a pochi passi da piazza San Benedetto. «Chiediamo alla comunità di aiutarci, ognuno di noi può segnarsi in un elenco e venirci a dare una mano per un’ora. Così tutti possiamo essere orgogliosi del lavoro fatto». Hanno tutti braccia forti a Norcia. Dei sedici frati del monastero, molti hanno meno di trent’anni e sono arrivati da paesi lontani. Vengono per lo più dal nord America e si sono trasferiti in Umbria nel 2000, seguendo padre Cassiano, un benedettino originario dell’Indiana che per anni ha insegnato all’istituto Sant’Anselmo di Roma. Lui li ha convinti a riscoprire la vera tradizione monastica e ridare vita a quell’abbazia “disabitata” dal 1810. Quando le leggi napoleoniche soppressero la comunità di Norcia, il monastero venne chiuso e i palazzi vennero venduti a privati. Ora la congregazione norcina è internazionale e i giovani monaci provengono da tutto il mondo: dagli Stati Uniti ma anche da Canada, Brasile, e Indonesia.

Oltre la birra. Per loro fare la birra è un modo come un altro per restaurare l’abbazia e sostenere le spese. Non sono angeli, ma uomini e devono pur mangiare. Dietro al business del luppolo però c’è una filosofia più profonda: «Prendiamo i frutti della terra, acqua, grano e lievito per creare qualcosa di buono. La birra non è necessaria per vivere, ma le cose importanti non sempre sono necessarie. Neanche noi lo siamo, con la nostra preghiera. Ma questo lavoro ci permette di avvicinarci a tutti perché, nonostante la nostra vita di isolamento e preghiera, sembriamo più ‘normali’, più vicini alla gente comune». L’arte birraria, dicono, diventa una vera e propria forma di evangelizzazione: «molte persone entrano nel nostro negozio interessate alla birra e poi possono avvicinarsi anche alla religione». La vita di preghiera è sempre meno allettante e i monasteri, in primis quello di Cassino, rischiano di chiudere i battenti. Per i monaci di Norcia la birra vuole essere, in qualche modo, un antidoto alla crisi vocazionale: «Chiamiamolo anche marketing. Vogliamo che i giovani riscoprano questa vita: una vita, sì, di sacrifici ma anche una vita normale».

A Norcia tutti conoscono la Nursia. E tutti la vendono: nei ristoranti, negli alimentari, nei pub. Accanto ai vini umbri più pregiati e alla norcineria più tradizionale, la birra prodotta dai monaci è d’obbligo. «Ora Norcia è conosciuta anche per questo — ci racconta entusiasta padre Martino — i turisti apprezzano la nostra birra e ritornano qui per comprarla». La bionda di sei gradi è la più leggera e si può usare al posto del vino bianco. La extra di dieci gradi è dolce e secca e va bene con prosciutti e salsiccia. «Entrambe insomma si abbinano perfettamente al cibo di questa terra», confessano i confratelli, seppur per “regola” vegetariani. Le vie della Nursia sono infinite: viene distribuita in tutta Italia e arriva fino a Irlanda e Portogallo. E adesso tramite il sito web i monaci vogliono esportarla anche oltreoceano, negli States.

L’Umbria non è più soltanto la patria del vino. O almeno, così pare. Da qualche tempo infatti sembra che l’arte birraria umbra inizi ad essere apprezzata anche fuori regione. Nell’ultima edizione di “Birra dell’Anno” (il premio assegnato da Unionbirrai ai migliori birrifici dello stivale), l’Umbria è stata eletta regina nel campo delle birre artigianali: 7 medaglie, di cui 5 d’oro, e il riconoscimento per il miglior birrificio dell’anno consegnato a Fabbrica della Birra Perugia. Certo, il centro Italia non eccelle per la coltivazione di luppolo, né può vantare una tradizione antica come quella dei frati trappisti del Belgio. Ma una cosa è certa: nella nuova geografia birraria italiana l’Umbria, con i suoi 26 microbirrifici, cerca di puntare non ai grandi numeri ma alla qualità. Il CERB, centro di eccellenza dell’Università di Perugia, è l’unico istituto italiano di ricerca sulla birra e sulle sue materie prime. E sempre qui, presso la facoltà di agraria, è stato istituito anche il primo corso di laurea in Italia per diventare tecnici birrai. Ma l’arte birraria perugina era nota già dal lontano 1875, anno della fondazione della Fabbrica della Birra: uno dei primi birrifici sorti in Italia, insieme alla Forst di Merano e alla Peroni di Roma. Il marchio, fatto rinascere da alcuni ragazzi all’inizio degli anni Duemila, è lo stesso che oggi è salito sul gradino più alto del podio di Unionbirrai.

I nomi però sono tanti: Birra dell’Eremo ad Assisi, ad esempio, insieme alla Flea di Gualdo Tadino, San Biagio e Mastri birrai umbri (quest’ultimo è il primo birrificio in Italia per produzione fra gli artigianali). E il “caso Umbria”, la micro regione con più riconoscimenti in senso assoluto, ha fatto discutere gli esperti del settore. «Se n’è parlato tanto — racconta Enrico Ciani dell’Eremo — ma io penso che se dobbiamo cercare un filo conduttore quello è proprio il CERB. Tutti sono passati di lì: ha formato i birrai, gli ha dato un modo di operare all’inteno del birrificio, gli ha dato quel qualcosa in più che li ha aiutati a produrre ottime birre. Sono un grande team, se entri lì ti appassioni». Enrico ha studiato agraria a Perugia e , una volta laureatosi, ha aperto un piccolo stabilimento insieme alla moglie Gertrude. Ora la loro birra viene esportata soprattutto all’estero, in Cina, Australia e Norvegia. Una scelta lungimirante: perchè se il settore della birra è sempre in crescita, a crescere è soprattutto l’export (+ 3,5%). Ed è in quella direzione che guarda l’esercito dei piccoli birrifici italiani, che ogni anno produce da solo quasi 378mila ettolitri di birra. Bisogna giocarsi al meglio quindi anche la carta del brand: «Guardando ad un mercato internazionale — spiega Enrico — abbiamo voluto anche nel nome (Eremo) giocare con l’immagine di Assisi nel mondo. È un incontro tra sacro e profano, vecchio e nuovo, un marchio giovane che guarda anche alla tradizione».

Il binomio vincente. «Acqua, orzo, luppolo e lievito, questi sono elementi necessari per un’ottima birra» ci dice anche Fra Agostino. Ma non sono i soli. Che la strada intrapresa sia laica o monastica infatti, i due ingredienti indispensabili per portare il prodotto al successo sono sempre tradizione e innovazione. E i frati di Norcia sono testimoni di questa convivenza.

Non è un mestiere per vecchi. Sono tutti giovani, hanno un’età compresa tra i 23 e i 36 anni e sono tutti figli della nostra epoca. Ecco perché frate Agostino non capisce quando le persone si meravigliano nel vedere lui e i suoi confratelli usare lo smartphone ed essere dei bravissimi utenti della rete. Tuttavia non può non stupire il loro saper stare al passo con i tempi. Da un lato il rigore di una vita monastica antica, fatta di austerità e di privazioni; dall’altro la capacità di arrivare a tutti anche attraverso internet. E non pensiamo solo alle strategie commerciali per vendere la birra. Sul sito — gestito e curato dagli stessi frati — si trovano i podcast delle loro messe, è possibile leggere le omelie della domenica, fare le donazioni e partecipare ai pellegrinaggi da loro organizzati. Sul blog ci sono tutti i link per i social network (facebook, twitter, vimeo e youtube). Inoltre, da poco meno di un anno, i monaci hanno inciso il loro primo album di canti mariani: Benedicta. Che, neanche a dirlo, è possibile scaricare direttamente da i Tunes. «L’idea di un album con tutti i canti — chiosa Fra Agostino — è stata di una etichetta americana che da sempre ci ha chiesto di registrare». Ci spiega infatti che cantare insegna loro a pregare e che «questi canti per noi sono pane quotidiano: tutte le preghiere sono cantante e anche la messa». La loro “eccentricità” è apprezzata da tutti anche in Vaticano, dove durante l’ultimo conclave fu inviata una cassa di birre. Fra Agostino ride e, pur ammettendo di non essere ancora arrivato a Norcia in quel periodo, racconta: «Abbiamo dato la birra a papa Benedetto e lui, da bravo tedesco, ha gradito molto. In conclave? L’avranno bevuta dopo lo stress delle votazioni».

Il segreto dei frati di Norcia sarà proprio questo: riuscire a mantenere un contatto con la vita terrena, traendo da quel lavoro manuale i frutti per una vita meditativa. Il nostro viaggio a Norcia si conclude così. Con una chiacchierata insieme a padre Martino, “l’economo” dell’abbazia. Ci spiega come lui e i suoi confratelli mandano avanti la struttura, poi ci saluta: «Adesso scappo. Vado dal commercialista, bisogna pur sbrigare le faccende terrene».

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