TESTATA: Il Turismo Culturale

DATA DI PUBBLICAZIONE: Maggio 2011

Umbria, terra di poeti, santi, mistici e condottieri. Umbria, terra di contadini e allevatori, cacciatori e pescatori, fungaioli e tartufai, vignaioli e frantoiani, artigiani, cuochi, panettieri, pastai, norcini e cioccolatieri. Umbria, terra di massaie e di buongustai, di ghiotte, spiedi e focolari. Umbria, terra di storie e di leggende, scoperte e riscoperte, gesti semplici e sapori di una volta, appetitosi sogni e gastronomiche certezze.

A anguilla del Trasimeno

“Sulla tavola d’acqua dipinta dagli ulivi, scendono le isole a mezzogiorno. La voce della barca s’allunga, a svegliare le anguille tra i canneti”. È l’anguilla del Trasimeno quella delicatamente dipinta da Mario Lucrezio Reali, chimico prestato alla poesia. Grasse e prelibate sono le carni di questo pesce sguisciante, dal corpo allungato e serpentiforme e il ventre giallastro, che i pescatori della zona catturano con il “tofo”. E se a cadere nella caratteristica rete conica sia la primaverile “boccona”, piuttosto che l’autunnale e più rinomata “maretica”, poco importa. L’anguilla aggrada comunque il palato. Affumicata, marinata all’alloro, cotta allo spiedo o alla griglia. Ma è nel tradizionale tegamaccio, una squisita zuppa di pesce lacustre cucinata nel tegame di terracotta, a fuoco lento, per cinque ore, che gli schietti sapori del lago si trasformano in romantici versi.

B brustengolo

Ricco pane dei poveri. La contraddizione - che nol consentirebbe - è soltanto apparente. Nel Brustengolo, pane dolce tipicamente perugino, l’impasto di acqua tiepida e farina di mais è nei fatti impreziosito da un corredo di ingredienti che ha poco da invidiare al più regale dei deschi. Dopo una lunga notte di riposo, l’umile composto smette i suoi abiti da bifolco e viene vestito a festa con l’aggiunta di zucchero, mele tagliate a fettine, uvetta, olio di oliva, succo e buccia di limone grattugiata, pinoli, gherigli di noci, semi di anice o, in liquida alternativa, qualche goccia di mistrà. Il tutto è amalgamato, steso nello stampo ben oliato e infornato. Un solo morso e prendono vita i ricordi dell’autunno, di antiche tradizioni rurali, di un’infanzia felice, dei campi coltivati a granturco, dei tempi grami, quando bastava qualche manciata di frutta secca per sentirsi un re.

C coratella

Se lo fece per sfidare il demonio, per vincere le tentazioni della gola o per semplice penitenza, non è dato sapere. Certo è che Fra’ Jacopone da Todi patì non poche sofferenze nel baciare e lambire la coratella appesa nella sua cella, senza poterla addentare. La storia è nota: la carne presto marcì “et puzava ssì forte che se sentiva per tuto el dormitorio”. Dal pestilenziale fetore al soavissimo odore, dalla carne putrescente al “giubilo del cuore”. La coratella d’agnello è pietanza prelibata che sulla tavola umbra non può certo mancare. Rigorosa è la sequenza di polmone, cuore, frattaglie e, solo da ultimo, fegato. Interiora lavate in acqua e aceto, rosolate nell’olio con un trito di cipolla, condite con sale, pepe, rosmarino e una fettina di limone, sfumate con il vino bianco e fatte insaporire a tegame coperto. È così che si compone la lauda al gusto.

D daino

Non cinghiali, cervi, caprioli o altri selvatici ungulati, che pure popolano i boschi umbri in gran numero, ma daini. Nel territorio di Nocera Umbra l’allevamento e la lavorazione delle carni del Dama Dama - così Linneo volle appellare il rustico e frugale cervide - sono tradizioni consolidate. Delizioso è il bocconcino, ottenuto da finissima macinazione di carne magra di daino e del grasso di maiale, aromatizzato con sale, pepe e bacche di ginepro, insaccato, legato con lo spago e fatto stagionare un mese. Non meno prelibati sono i cacciatorini, salami di piccole dimensioni ma di grande gusto, o il filetto, ricavato con chirurgica precisione dalla lombata. Superbo è poi il prosciutto ottenuto dalla coscia sgrassata, salata a secco, conciata con aromi, affumicata e lasciata maturare. Non inquieti il rosso scuro di quella fetta priva di marezzatura, ci si affidi piuttosto al palato.

E erba

Bieta selvatica, erba bruscia, erba del becco, porcacchia, raperonzolo, caccialepre, borragine, pimpinella, saprusella, gobbi, camettole, luppoli, vitalbe, strigioli, crocette, grespigni… Piante campestri dai nomi bizzarri, spesso dialettali, capaci di far ammattire il più zelante dei botanici; piante che gli umbri, con grande senso pratico, chiamano più semplicemente erba. È erba ribelle, infestante o rampicante, quella che nasce spontanea nei campi, nei boschi, nei prati, lungo i fossati, nei greppi dei viottoli di campagna. È erba d’antan, che sa di vigilia e di “mangiar di magro”. È erba umile, che in cucina sa farsi grande. I gambi, le foglie o le radici vengono condite a insalata con olio, sale e aceto, o appena sbollentate in acqua salata, o ripassate in un soffritto di lardo e spicchi di aglio o utilizzate come agreste ripieno di un’immancabile torta al testo.

F fagiolina del Trasimeno

Riscoperta. Rilancio. Rivalorizzazione. Quel “ri” avanza inesorabile, sull’onda del recupero delle identità territoriali e delle opportunità legate ai nuovi mercati delle produzioni tipiche e di qualità, e sospinge la Fagiolina del lago Trasimeno. Grazie ad un manipolo di coraggiosi agricoltori, a Slow Food e all’Università di Perugia, questo prelibato legume, di etrusco lignaggio, è stato sottratto all’oblio e si ripresenta (ancora un ri) a tavola in tutto il suo splendore. Varietà locale di fagiolo dall’occhio coltivata nei terreni umidi del fondovalle lacustre. Piccolo, ovale e multicolore, dalla buccia sottile e il sapore erbaceo, delicato, quasi burroso, si fa gustare lessato e condito con un filo di olio extravergine, o in una zuppa di pane raffermo, o sublimato dalla suina cotenna. Ma dà il meglio di sé cotto nella pignatta, lentamente, con aglio e pomodoro. 

G ghiotta

La testa, il collo, le punte delle ali e le zampette di una bella palomba (il colombaccio) - e, perché no, qualche uccelletto spennato - vengono energicamente battute, sminuzzate, ridotte in poltiglia e versate in un antico tegame di forma bislunga e munito di manico. Ghiotta. “Destinata a ricevere in sé ghiotte cose e leccarde”. Dal contenitore al contenuto il passo - metonimico - è breve. Nell’intingolo finiscono salvia, rosmarino, pepe nero in grani, aglio, buccia di limone, aceto, olio extravergine d’oliva e una dose abbondante di vino rosso, di buon corpo. E ancora, in un delirio gustativo, capperi, olive, bacche di ginepro, acciuga, tozzi di pane raffermo, prosciutto tritato e fegatini di pollo. Poi è ancora la palomba, che cuoce infilzata allo spiedo con struggente lentezza, a grondare i suoi umori nel ricco tegame e a rendere la ghiotta ancor più ghiotta.

H h2o, acqua

Due atomi di idrogeno uniti, in legame covalente, a un atomo di ossigeno. È l’acqua. Mistica e primigenia, vivificatrice e miracolosa, sacra e purificatrice, quieta e cristallina. Umbria, regione dell’acqua. Buffo paradosso per una terra così lontana dai mari, eppure assai ricca di questo elemento vitale. È così. In Umbria l’acqua è ovunque: nei laghi, nei fiumi, nelle cascate, nei canali di irrigazione, nelle artistiche fontane medievali, nel sottosuolo, nei massicci carbonatici della dorsale appenninica, nelle numerose sorgenti e nei complessi termali tanto apprezzati dai Romani. Salus per aquam. Benefiche e curative sono le proprietà delle acque minerali umbre utilizzate per le cure idropiniche e per l’imbottigliamento. Sangemini, Sanfaustino, Rocchetta, Flaminia, Viva, Misia, Fonte Tullia sono soltanto alcune delle rinomate acque di una regione completamente sconosciuta a Nettuno.

I impastoiata

Nessun ostacolo. Nessuna corda, laccio o lacciolo. Di animali legati, neanche a parlarne. Questo piatto tradizionale, dall’etimo sviante, altro non è che un goloso incontro tra un proteico macco con i fagioli e quell’inesauribile concentrato di sostanza ed energia racchiuso nella polenta. I legumi (di norma cannellini o borlotti) vengono tenuti in ammollo per una notte intera, quindi lessati e fatti insaporire in un soffritto con il battuto di lardo, un trito di cipolla, sedano, carota, pomodori ben maturi (spellati e senza semi), sale e pepe quanto ne basti. Poi, a cottura ultimata, incontrano la molle polenta di farina di mais. Si abbracciano, si “impastoiano”, insaporendosi gli uni con l’altra. Il piatto contadino è pronto. Una generosa spolverata di pecorino e potrà essere consumato, caldo o freddo.

L lenticchia di Castelluccio di Norcia

I fiorellini bianchi con venature violacee si alternano alle azzurre campanule, al giallo intenso delle olmarie peperine, al cremisi dei papaveri, al blu dei fiordalisi. Sullo sfondo, il verde smeraldo dell’altopiano carsico e, intorno, a rendere questo pezzo di Parco Nazionale dei Monti Sibillini ancor più metafisico, la nebbiolina madreperlacea del primo crepuscolo estivo. È questa la casa della lenticchia di Castelluccio di Norcia, prodotto tradizionale insignito con una meritatissima IGP. Seme lillipuziano, piatto, tondeggiante, striato. Colori che virano dal nocciola al verdastro. Buccia assai sottile e gusto delicato. Ottima come contorno, ideale per accompagnare un salume. I tempi di bollitura contenuti, la capacità di mantenere la cottura e di non perdere la buccia sono solo alcuni dei numerosi pregi gastronomici di questo legume. E poi il sapore inimitabile e il nostalgico ricordo dell’aia e del vecchio contadino che fa roteare sulla testa il suo mazzafrustu e batte ritmicamente i baccelli sulla paglia.

M mazzafegato

Tre quarti di carne di seconda e terza scelta (i pregiati scarti dei banchi dell’antica macelleria) e un quarto di fegato di maiale, un po’ di polmone e di spuntatura di polpa. Questa è la base dell’impasto del mazzafegato, salume tipico della tradizione regionale più ortodossa, che viene tritato finemente, salato, pepato, insaporito con fiori di finocchio e pinoli (nella versione dolce la carne è ulteriormente conciata con lo zucchero, l’uva passa, le bucce d’arancia e un rinvigorente goccio di vinsanto), insaccato in un budello naturale precedentemente aromatizzato nel vino, legato con lo spago, appeso e lasciato stagionare in cantina per almeno un paio di mesi. Colore scuro, profumo aromatico, sapore rustico, intenso e deciso. Salsiccia matta, insomma. Gustata con un paio di fette di pane cotto al forno a legna è autentica gioia per i cultori del quinto quarto.

N norcino

Alto medioevo. Nei dintorni di Norcia, tra erbosi pendii, ampie faggete e boschi di querce di alto fusto è assai diffuso il pascolo dei suini. Gli allevatori della zona possiedono notevoli abilità manuali e presto si specializzano nella mattazione, castrazione e lavorazione dei maiali. La loro innata attitudine si perfeziona grazie alle nozioni di anatomia apprese dai monaci benedettini della vicina abbazia di Sant’Eutizio. E l’antico esercizio di “acconciare, condire ed ammannire in mille guise le carni dei majali” diventa una professione, una qualifica, un’arte. Nasce il moderno norcino, nascono corporazioni e confraternite, ma nascono soprattutto quei capolavori di gusto e artigianalità che tutto il mondo ci invidia. Salsicce, coppe, porchette, coppiette, lombetti, capocolli, ciauscoli, soppressate, mortadelle, prosciutti, pancette, guanciali, mazzafegati, budellacci, sanguinacci, salami, coralline, fiaschette del frate, coglioni di mulo e un’interminabile teoria di squisiti salumi ed insaccati.

O oca

In Umbria il gioco dell’oca ha regole tutte sue. Non ci sono dadi, né caselle, segnalini e tabelloni a spirale. Quanto alle palmipedi partecipanti, c’è davvero poco da divertirsi. In passato la sorte riservava loro due sole fatali alternative: diventare soffice piuma per i materassi da lasciare in dote alle figlie in età da marito o essere trasformate in succulente pietanze durante i freddi mesi invernali. Oggi i materassi vengono imbottiti con molle, lana e lattice di gomma, ma il destino gastronomico degli starnazzanti animali da cortile è, ahimè, rimasto immutato. E a divertirsi sono i buongustai, quando a tavola fanno la loro comparsa fumanti piatti di gnocchi, umbricelli o tagliatelle al sugo di oca, oche arrosto, oche in porchetta, oche ripiene alla contadina e fritto d’oca in padella.

P patata rossa di colfiorito

Altopiano di Colfiorito, Appennino umbromarchigiano. I reperti paleolitici, le duecentocinquanta tombe ad inumazione (corredate di ceramiche, armi in ferro e oggetti ornamentali), le capanne risalenti all’età del ferro e una meravigliosa chiesa in stile proto-romanico, la Basilica di Plestia, giustificano abbondantemente il viaggio. Se poi alla passione per la storia si accompagna quella per la gastronomia, l’occasione è propizia per gustare, in loco, la patata rossa di Colfiorito. Il tubero, dalla caratteristica buccia ruvida, sottile e rossastra e la polpa soda e croccante, è stato introdotto dagli agricoltori della zona agli inizi degli anni Sessanta e ha saputo ambientarsi perfettamente alle basse temperature e ai terreni sabbiosi dell’altopiano. Il sapore è ottimo, i quantitativi prodotti sono esigui, la commercializzazione è locale. Tre motivi in più per mettersi in viaggio.

Q quadrucci

Nulla a che vedere con i rinomati disegni d’epoca rinascimentale che ornano preziosi lini. Questi quadrucci non nascono dall’incrocio di trama e ordito, ma da un impasto di acqua e farina di grano tenero (con la moderna variante dell’uovo), lavorato da mani altrettanto sapienti. Piccoli quadrati di sfoglia cucinati con un corroborante brodo di gallina, la cotenna del maiale, la cicoria selvatica, la verza, le patate e le carote, i piselli, i ceci, i fagioli o le lenticchie. Al pari di frascatelli e passatelli, appartengono alla grande famiglia della pasta da minestra, pietanza conviviale per eccellenza che, dalle Alpi alla Sicilia, stringe l’italico stivale in un unico grande abbraccio. Piatti semplici e genuini, ricchi e nutrienti, brodosi ma non troppo; piatti della memoria, piatti che scaldano corpo e anima e rasserenano la mente.

R roveja

La forma sferoidale ricorda il pisello, ma il sapore è simile a quello della fava. La roveja, pisum arvense, è un legume curioso, dall’elevato contenuto proteico, le origini dubbie (pare provenire dal Medio Oriente), la grande capacità di adattamento (resiste alle basse temperature e non necessita di molta acqua) e le alterne fortune. Nel passato più remoto è assoluta protagonista dell’alimentazione; a metà del Novecento, per la maggiore redditività di altre colture, rischia l’estinzione; negli ultimi anni, infine, grazie alla tenacia di eroici agricoltori di Cascia e dintorni, torna a nuova vita. Oggi questo pisello dei campi, dal colore cangiante verde, grigio e marrone, è un ricercatissimo prodotto gourmet. Da consumarsi fresco o essiccato nelle zuppe e nelle minestre. Macinato a pietra, si trasforma in un’amarognola farina utilizzata per preparare la farecchiata, una polenta insaporita con olio, aglio e battuto di acciughe.

S sedano nero di Trevi

“Sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba”. Nel Cantico delle umbre creature c’è spazio anche per un ortaggio dall’insolito colore, coltivato nelle terre umide e argillose tra Borgo e il fiume Clitunno. È il Nero di Trevi, una particolarissima cultivar di sedano, dal cuore tenero e polposo e il profumo irresistibile. Tra ritualità e antiche tradizioni, le lavorazioni seguono un preciso calendario. Da sempre. Si semina ad aprile (possibilmente con luna calante); ad ottobre, invece, si legano e si interrano le piante giunte a maturazione. Solo così il verde scuro delle coste schiarisce, assumendo colorazioni più candide e rassicuranti. E il sedano fa il suo ingresso a tavola. Dall’intramontabile pinzimonio alla sontuosa parmigiana, dall’insalata alla purea, dalla pastasciutta al ripieno di salsiccia, dalla zuppa alla frittella.

T torcolo di San Costanzo

Alcuni sostengono che la forma circolare della ciambella richiami la collana di San Costanzo o, alternativamente, la ghirlanda di fiori usata per coprire i segni del feroce martirio; altri affermano che il buco rappresenta invece il collo decapitato del santo stesso; altri ancora - più laicamente - ritengono che il foro sia stato concepito solo per una questione di praticità e trasportabilità. Considerando questi ultimi una trascurabile minoranza, possiamo affermare, senza tema di smentita, che il Torcolo di San Costanzo è il dolce dei dolci della tradizione perugina, creato proprio in onore di uno dei tre patroni della città. Tradizione millenaria, sapore genuino, ingredienti semplici e facilmente reperibili che, nella ricetta codificata dall’Accademia Italiana della Cucina di Perugia, sono: farina di grano tenero, acqua, lievito acido, olio extra vergine di oliva, zucchero, uva passa, cedro candito, anice e pinoli.U ulivo

Spolette volanti, macchine a vapore, ciminiere che sbuffano. La rivoluzione industriale emette i suoi primi vagiti. C’è bisogno di olio per sfamare la gente, alimentare le lampade e illuminare il progresso. Le autorità incoraggiano l’impianto di nuovi uliveti e quando nel 1829 Papa Pio VIII, con solenne notificazione, promette a chi metta a dimora una pianta di ulivo il premio di un Paolo (equivalente al guadagno di un’intera giornata lavorativa nei campi), l’Umbria, come per magia, si ricopre di ulivi. Dai frantoi sgorga un olio verde smeraldo, intenso, fruttato, dal persistente profumo di oliva fresca e di erba appena tagliata, dal retrogusto piacevolmente amarognolo. È l’olio di ieri. È l’olio di oggi. L’extravergine DOP Umbria, della regione grandissimo vanto.

V ventresca

Di nuovo lui, il nobile suino, del quale - e l’antico adagio è assoluta verità - non si butta via nulla. Nei dialetti dell’Italia centrale (umbro compreso), la ventresca è un tipo di pancetta ottenuta dal ventre del maiale, privata della cotenna, salata, aromatizzata con vino, aglio, pepe ed altre spezie, arrotolata (ne esiste anche una versione “tesa”), incartata, legata, appesa a un vecchio gancio di acciaio e lasciata stagionare. Quintessenza di sapore sotto forma cilindrica. Poi la lama di un coltello viola la sua integrità. Le fette cadono docilmente sul tagliere. Le strie marmorizzate del grasso si alternano, in una giostra concentrica, con quelle rosate della carne più magra. Al contrasto cromatico ne seguono uno olfattivo (i boschi e gli aromi speziati) e uno gustativo (ancora il grasso e il magro in perpetua lite, ancora l’armonia dietro la saporita guerra dei contrari).

Z zafferano di Cascia

“È buono ma è un po’ caro” argomenteranno alcuni. Ma basti pensare al sapore inarrivabile, alle specifiche necessità colturali, alla lavorazione rigorosamente manuale, alla rigida selezione e, soprattutto alle minime quantità prodotte, per farsi una ragione dei costi elevati. Per ottenere un chilo di zafferano fresco di Cascia, zafferano purissimo dell’Umbria (quantitativo che corrisponde, grammo più, grammo meno, a circa due etti di prodotto secco), occorrono circa duecentomila fiori di Crocus Sativus. I bulbi vengono espiantati ogni anno alla fine di luglio e, dopo un’attenta selezione, subito messi a dimora agli inizi di agosto. I fiori, di un bel colore violetto, sono raccolti tra ottobre e novembre, alle prime ore del mattino, per evitare il contatto diretto con i raggi del sole. Nell’arco della giornata gli stimmi trifidi - solo quelli di colore rosso vivo - vengono separati dal fiore e fatti essiccare lentamente, mediante tostatura su brace di legna. Un lavoro manuale, lungo, complesso, che richiede una pazienza zen e giustifica il prezzo. 

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