Non bisogna fermarsi alla prima impressione che danno il muso bianco e i fianchi di questa nonna cagna. A 12 anni Luna, metà labrador, metà non si sa bene, è una campionessa. Nella tartufaia corre a zigzag tra noci, querce bianche e carpini. Una leggera accelerazione, la coda che si agita, qualche zampata per raschiare la terra ed ecco che si gira verso Santino, il suo padrone, con un tartufo da 100 grammi in bocca. Tutto questo con un'estrema delicatezza, perché Luna sa che non deve graffiare il tesoro della sua ricerca prima di lasciarlo cadere ai piedi del cavatore, il raccoglitore di tartufi. Quando il tartufo è intrappolato da una radice, la cagna si gira e aspetta che Santino venga a liberare delicatamente il prezioso tubero. In mezz'ora Luna raccoglie 700 o 800 grammi di scorzone, il tartufo d'estate – meno ricercato del nero di Norcia o del bianco di Alba – che verranno immediatamente trasportati nei locali della famiglia Urbani a pochi chilometri di distanza. Urbani: un nome sinonimo di tartufi in tutto il mondo.

Commercianti da sei generazioni, la famiglia con sede a Scheggino (in Umbria, a 14 Km da Spoleto) commercializza il 70% dei tartufi consumati nei cinque continenti. Il tartufo fresco rappresenta un terzo del fatturato e il resto è costituito da conserve, prodotti derivati dai tartufi, funghi e alberi da tartufo. L'azienda impiega 300 dipendenti, ma collabora con 30.000 cavatori – piccoli raccoglitori – che si trovano sparsi nella penisola. La saga di famiglia inizia nel 1852, quando Costantino Urbani partì dalla natia Scheggino per vendere i suoi tartufi umbri in giro per il mondo. Arriva nel sud della Francia e nel Lot, poi in Svizzera e in Germania. Costantino era un vero imprenditore. Oltre al suo dinamismo commerciale, aveva inventato un sistema di tappatura metallica dei vasetti che permetteva di conservare meglio il tartufo rispetto alla tradizionale tappatura a colla. Negli anni '30 la generazione successiva tenta la fortuna in America, inviando uno di loro a conquistare New York. Ma il discendente degli Urbani manda a Scheggino lunghe lettere disperate, spiegando che gli americani non capiscono nulla e pensano che il tartufo sia un gelato o un cioccolatino.

È solo con la quarta generazione che l'azienda, sotto la guida di Paolo Urbani (morto nel 2010, a 80 anni), si struttura per diventare leader del mercato: una rete di concessionari in tutte le regioni di produzione, meccanizzazione del processo di invasatura, razionalizzazione delle spedizioni e diversificazione dei prodotti. Sala di negoziazione. L'odore cattura il visitatore non appena oltrepassata la soglia dell'azienda. Il profumo afrodisiaco che l'imperatore egiziano Kheops amava respirare già nel 2600 a. C. si spande tra corridoi e uffici. "Nella nostra sede di New York, vicino a Columbus Circle, il condominio ci ha citato in giudizio e ci ha costretti ad installare un sistema di ventilazione degno della Nasa" dice Olga Urbani, rappresentante della quinta generazione. E c'è ancora un vecchio regolamento delle ferrovie italiane che vieta il trasporto di tartufi nei vagoni del treno per evitare di disturbare i passeggeri. Qui i tartufi sono conservati al piano inferiore, nel grande laboratorio. Quelli neri vengono puliti con una spazzola e poi con acqua di sorgente. Alcuni di essi saranno posti in vasetti di vetro con la loro acqua di lavaggio e un po' di sale per essere conservati. Gli altri partiranno la sera stessa per il mondo intero. I bianchi, invece, sono troppo preziosi per essere conservati.

"Il tartufo è fatto al 90% di acqua" spiega Olga. "La freschezza è essenziale. Ogni ora che passa perde peso e profumo. Il tartufo dovrebbe essere consumato entro tre giorni dalla sua raccolta. Consegniamo la nostra merce nei cinque continenti entro 24, massimo 36 ore dalla raccolta". Su un tavolo, un contenitore di sabbia dorata. "Gli americani trovano che l'aspetto terroso e opaco dei tartufi bianchi non sia abbastanza chic da giustificarne il prezzo. Perciò li passiamo nella sabbia dorata per dare loro un colore più prezioso. È il mercato che comanda". I 2.000 ettari di tartufaie di proprietà della famiglia Urbani nelle diverse regioni d'Italia producono solo una piccola parte dei tartufi venduti. Ogni giorno, alla fine della mattinata, dopo la raccolta mattutina, i corridoi dell'azienda si trasformano in una sala di negoziazione. Le persone parlano ad alta voce con i telefoni cellulari all'orecchio, e dei sonori "Vaffanculo!" risuonano piuttosto frequentemente. "Compriamo in Italia, Macedonia e Croazia sulla parola, senza vedere la merce" spiega Carlo Urbani, responsabile dei mercati esteri. "Il corso può variare di ora in ora e spesso abbiamo delle sorprese quando arrivano i pacchi". Perché tutto è buono per aumentare il peso di una merce che si negozia al grammo: ricoprire il tartufo di terra o infilarci dei sassolini. Sempre con la terra si nascondono i morsi delle mosche.

A volte un grosso tartufo si scompone quando arriva a Scheggino: era solo un abile assemblaggio, tramite stuzzicadenti, di due o tre tartufi medi... "Non è raro vedere dei tartufi incollati l'uno all'altro con la colla" insorge Olga. Anche per i cavatori il pericolo è dietro l'angolo: cani avvelenati, tartufaie saccheggiate nella notte, depositi derubati. Davanti alle telecamere del canale americano CBS, Clément Bruno, il cui ristorante provenzale "Chez Bruno" è il tempio del tartufo in Francia, aveva fatto il gesto di un coltello che passava sopra la gola per evocare la "mafia" dei diamanti neri o bianchi. Per non parlare del pericolo giallo: il Tuber Himalayense, il tartufo cinese. "Ha un bell'aspetto di tartufo nero, l'odore è un po' deludente, ma il gusto è davvero catastrofico, sembra legno" spiega Olga Urbani. "Mescolandolo a del nero si può ingannare un neofita. A 50 euro al chilo, invece dei 1.000 per l'autentico, il calcolo è presto fatto. Il peggio sarebbe se le spore cinesi infettassero le nostre tartufaie, sia in Italia che in Francia". L'Italia ha vietato l'importazione del Tuber Himalayense, ma la Francia no... Tuttavia gli Urbani sono ora più preoccupati per il riscaldamento globale e la siccità che per i ladri o i tartufi cinesi. "Il tartufo nasce in primavera" spiega Bruno Urbani, amministratore delegato dell'azienda di famiglia. "Non è come un porcino che può crescere in una settimana con pioggia e sole. Se non piove in primavera il tartufo non si sviluppa e la stagione è rovinata". Bruno ha conosciuto anni fortunati. "Ricordo una fiera dove ho comprato 1.800 chili di tartufi. I camion erano già pieni quando mi hanno avvertito che un cavatore aveva ancora 400 chili. Abbiamo trattato ad occhio, senza pesare. Dal momento che non sapevamo dove metterli, abbiamo appoggiato i cestini sulla strada. Un camion ci è passato sopra e ha schiacciato tutto! In anni molto buoni trattavamo anche 200 tonnellate, ora 150 tonnellate è già una buona cifra".

Nessuno osa fare previsioni per il 2017, annus horribilis del tartufo a causa della siccità. "Durante la stagione delle vacanze natalizie i nostri clienti grossisti ci ordinano 400 chili di bianchi di Alba al giorno, mentre difficilmente possiamo fornirne 20 o 30 chili. I cavatori ci chiedono 6.000 euro al chilo, a volte di più. Ciò significa un prezzo di 10.000 euro al chilo per il consumatore finale". Destinazione Casa Bianca. Ma un miracolo è sempre possibile. Per un coltivatore di tartufi, il miracolo è il tartufo gigante. "Al di sopra di 100 grammi è già molto buono, 500 grammi è eccezionale, oltre 1 chilo è il Graal" dice Bruno Urbani. "Non appena si trova un tartufo di peso superiore a 1 chilo veniamo informati, perché abbiamo i migliori clienti al mondo". Così, nel 2008, al termine di una sanguinosa trattativa, Bruno si aggiudica uno straordinario esemplare da 1,5 chili. Questo è stato poi inviato alla Casa Bianca per essere regalato a Barack Obama, come da vecchia tradizione della famiglia Urbani, che ha offerto un tartufo gigante a tutti i presidenti americani a partire da... Richard Nixon. A Donald Trump non ancora, ma è solo una questione di tempo. Il tartufo ha aperto le porte del jet-set internazionale a Olga Urbani, che è amica di Marla Maples, la seconda moglie di Trump.

Oggi, mentre si appresta a subentrare la sesta generazione, l'azienda ha un fatturato di 60 milioni di euro in 70 paesi, suddivisi in circa tre terzi della stessa proporzione: tartufi freschi, prodotti derivati dai tartufi e porcini bulgari. Tra i 600 sottoprodotti ce ne sono per tutti i gusti e tutti i portafogli: dalla gelatina al sashimi, dai cioccolatini al ketchup passando dalle salse barbecue o la maionese. Concessione alla globalizzazione del tartufo, che farà brontolare i puristi: i prodotti derivati dal tartufo vengono ulteriormente aromatizzati per assecondare il gusto dei diversi mercati. I tartufi freschi, invece, rappresentano l'80% dei tartufi freschi destinati ai tavoli dei ristoranti stellati – il resto è venduto a privati in negozi di alimentari raffinati – dove un piatto di tagliatelle o un uovo fritto ricoperti di scaglie di tartufo bianco d'Alba sono serviti ad un prezzo che può arrivare ai 500 dollari. Vendita di alberi. Un ultimo settore di attività, ancora agli inizi ma promettente, è la vendita di alberi micorrizici. Le spore di tartufo vengono introdotte sulle radici di piante giovani in ambiente sterile. "Raggiunta la maturità e con tutte le condizioni favorevoli, il rendimento può essere di 100.000 euro per ettaro all'anno" afferma Olga Urbani. L'azienda di Scheggino offre servizi come lo studio del terreno, la progettazione della tartufaia e il suo monitoraggio, e garantisce l'acquisto del tartufo prodotto al prezzo di mercato. Questo tipo di franchising non corre forse il rischio di fare concorrenza all'azienda? "Passo la mia vita alla ricerca di tartufi. Non ce ne sono mai abbastanza, è una lotta costante. Ecco perché non ci arrabbiamo mai con i cavatori, anche quando imbrogliano. Siamo come tossicodipendenti con i loro spacciatori, abbiamo estremamente bisogno di loro. Quindi i nuovi produttori sono i benvenuti". Venduti al grammo da spacciatori, provocano un intenso piacere, vengono annusati dai consumatori e creano molta dipendenza: ma cosa aspetta la polizia?

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