Fin dalle 7 di mattina o poco più, sul prato ai piedi della chiesa di Porto infuria il caldo – e non solo perché, in questi giorni d’agosto, il termometro scende di rado sotto i 28 gradi anche di notte. Il minuscolo borgo umbro di appena 300 abitanti sorge poco discosto dal Lago Trasimeno ed è una frazione della cittadina di Castiglione del Lago. Questo luogo sonnolento – l’unica bottega di alimentari ha cessato l’attività da un pezzo, il ristorante ha ugualmente chiuso; sono sopravvissuti un negozio di mobili, uno studio di cosmetica e un semplice bar – poggia su un’altura fra il Lago di Montepulciano e il Lago di Chiusi. La prossimità ai tre laghi e la determinazione degli abitanti rimasti – oltre 800 ancora negli anni ’50 – a non lasciar morire le tradizioni locali hanno permesso a Porto di diventare ogni anno, dall’8 al 15 agosto, il polo d’attrazione degli amanti del pesce. Ogni volta che un gruppo di volontari del club sportivo o dell’associazione culturale del posto organizza la Sagra del Pesce, la località vive per otto giorni nel segno di ricette locali della tradizione – specie a base di pesce – come, fra le altre, il brustico e il tegamaccio.

Gli uomini di entrambe le associazioni si mettono all’opera di buon mattino. Armati di motosega, tagliano fasci di giunchi essiccati a una lunghezza maneggevole. Sopra questi fasci, 70 pesci persici, uno accanto all’altro, sono stesi in più file su una grande griglia rettangolare. Per alzare la griglia sopra i giunchi ben schierati sul terreno devono cimentarsi in due. Si apre quindi la bombola del gas per dare fuoco ai giunchi. In un lampo, roventi fiamme rosso-gialle guizzano dai giunchi essiccati avvolgendo fameliche i pesci di cui riducono le squame in carbone. Il calore a ridosso delle fiamme si fa quasi intollerabile. “I pesci devono restare sul fuoco vivo da venti a trenta minuti, fino quasi a carbonizzare; a questo punto, sono pronti per la squamatura, che precede un’ultima fase di trattamento durante la quale sono sottoposti a un processo di riduzione in listarelle meglio definibile come filettatura che come smembratura″, spiega Maurizio Appetito senza distogliere lo sguardo dai pesci persici sulla griglia. È solo al calare della sera che le donne condiscono il brustico, da consumarsi freddo, poco prima di servirlo nei piatti. Lo insaporiscono con olio extra vergine di oliva, pepe, sale e succo di limone.

Quello che a prima vista non sembra altro che pesce carbonizzato è un piatto tradizionale della zona. Le origini risalirebbero agli etruschi, un tempo di casa da queste parti. Il termine ‘brustico’ riflette il verbo dialettale ‘abbrusticare’ – ‘abbrustolire’ in italiano standard –, che è poi l’equivalente di ‘arrostire’ o ‘tostare’. Insieme all’uso dei giunchi come combustibile, è proprio questa modalità di preparazione a conferire al brustico un sapore del tutto speciale, di affumicato con una punta di amaro. Perché sia brustico, il pesce deve finire direttamente sulla griglia, così come l’hanno pescato nei tre laghi circostanti; niente escluso: testa e squame comprese. Il protagonista è spesso il persico, ma senza negare un posto ad altre specie, come il luccio o la tinca. A togliere la griglia dal fuoco e a squamare i pesci non si procede prima che questi abbiano assunto un aspetto ben carbonizzato. A quanto spiega Maurizio Appetito, in questa fase è cruciale usare con cautela il coltello per raschiare via le squame verso l’attaccatura. I pesci scottano ancora così tanto da impedire quasi agli uomini di tenerli in mano mentre grattano via le squame carbonizzate dalla loro pelle. Ma fermarsi è fuori discussione.

Dalle 7 di sera riprende l’afflusso di estimatori della sagra, che offre posto a più di cento commensali; allora tutto dovrà essere pronto, e la preparazione del piatto tradizionale richiede tempo.

Lo stesso vale per il tegamaccio, il secondo classico della gastronomia ittica lacustre servito alla Sagra del Pesce di Porto. Filetti di tinca, luccio e anguilla sono lasciati sobbollire per ore in grossi tegami rotondi di terracotta, immersi in un’appetitosa salsa a base di pomodori e olio extra vergine d’oliva insaporita con pepe, sale e un tocco di peperoncino. La stufatura del tegamaccio su brace di legna deve durare almeno quattro ore prima che il piatto sia pronto da servire. Così apprendiamo dagli uomini oggi coinvolti nella sagra come cuochi, che fanno la spola fra i lunghi tavoli di pietra e metallo allestiti in via straordinaria per il tegamaccio. I tizzoni di legna approdano dritti a questi tavoli. Ogni tegame rotondo è provvisto di un supporto metallico sotto il quale si ammucchia la brace, di cui un ampio focolare ai limiti dell’area di cottura rappresenta una costante fonte di approvvigionamento. Ogni aggiunta di brace si accompagna invariabilmente a una scossa impressa in qua e in là alle pentole basse – coincidenti in italiano con quei ‘tegami’ che danno appunto nome al brasato di pesce. “Questo gesto è essenziale, se si vuole evitare che il pesce si attacchi sul fondo”, spiegano i cuochi, aggiungendo che il tegamaccio non va comunque mai toccato, perché, altrimenti, i delicatissimi filetti finirebbero per sfaldarsi. Del tutto in linea col movimento Slow Food, anche i fautori della Sagra del Pesce di Porto puntano consapevolmente su un cibo prelibato e di origine regionale.

Le prede utilizzate per preparare i piatti tradizionali loro dedicati – oltre al brustico e al tegamaccio si servono anche spaghetti al sugo di pesce – provengono dai laghi limitrofi. Gli ulteriori ingredienti sono presi, per quanto possibile, dagli immediati paraggi. Gli organizzatori della sagra si sono inoltre impegnati, sulla base di un accordo sottoscritto dal Comune di Castiglione del Lago e da Slow Food, ad avvalersi di piatti riciclabili, a effettuare la raccolta differenziata nonché a servire le bevande unicamente in bottiglie di vetro. 

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