Fino al 1993, dell’antenato del pisello comune, la roveja, che cresce in alta montagna si era persa memoria. Poi la signora Silvana Crespi De Carolis decise di andare con un gruppo di donne a ripulire il paese abbandonato di Civita di Cascia, un piccolo borgo in provincia di Perugia, distrutto dal terremoto del 1979. In una cantina con la volta a botte, che aveva resistito alle scosse, trovò un barattolo con dentro degli “strani” semi. Chiese informazioni agli anziani del paese che si ricordarono di quel legume che li aveva sfamati durante la guerra. E quei tre etti di semi hanno cambiato la vita di Silvana.

Si chiama roveja ed è un piccolo legume simile al pisello, dal seme colorato che va dal verde scuro al marrone, grigio: “Se si guardano attentamente i semi verdi – dice Silvana De Carolis ad HuffPost – si nota la somiglianza con i piselli comuni. Pur non essendo un’agronoma sono sicura che il pisello roveja è un antenato del legume di cui oggi ci cibiamo”. Nei secoli passati questo antico seme era coltivato su tutta la dorsale appenninica umbro-marchigiana, in particolare sui Monti Sibillini, dove i campi si trovavano anche a quote elevate: la roveja è resistente anche alle basse temperature, si coltiva in primavera-estate e non ha bisogno di molta acqua, “in altre zone però è considerata una pianta infestante perché cresce spontaneamente”. Oggi è un Presidio slow food e la sua coltivazione ha fatto la fortuna di Silvana De Carolis, referente dei produttori del Presidio.

Protagonista dell’alimentazione dei pastori e contadini con altri legumi poveri quali lenticchie, cicerchie, fave, la roveja ha sfamato le popolazioni di montagna durante la guerra: “È un legume con alto contenuto proteico e senza glutine ed era facilmente reperibile. Se consumato secco ha un alto contenuto di carboidrati, fosforo, potassio e pochissimi grassi”.

Sebbene è evidente la somiglianza con il pisello comune, alcuni ricercatori ritengono che sia una specie differente (chiamata Pisum arvense). La classificazione botanica è quindi ancora indefinita.

“Dalle nostre parti si mangia molto nelle minestre ma è buono anche in umido con il maiale oppure col pesce”, dice Silvana De Carolis. Macinato a pietra, si trasforma in una farina dal lieve retrogusto amarognolo che serve per fare la farecchiata o pesata: una polenta tradizionalmente condita con un battuto di acciughe, aglio e olio extravergine di oliva, buona anche il giorno successivo, affettata e abbrustolita in padella.

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